Opera director
GIUSEPPE VERDI
Teatro Ponchielli (CREMONA, IT), Teatro Sociale (COMO, IT), Teatro Grande (BRESCIA, IT), Teatro Fraschini (PAVIA, IT)
Teatro della Fortuna (FANO, IT), Teatro Ventidio Basso (ASCOLI, IT), Teatro dell’Aquila (FERMO, IT)
conductor: ENRICO LOMBARDI
director: LUCA BARACCHINI
set designer: FRANCESCA SGARIBOLDI
costume designer: DONATO DIDONNA
lighting designer: GIANNI BERTOLI
assistant director: CHIARA RAGUSO
CORO DI OPERALOMBARDIA
Mº Massimo Fiocchi Malaspina
ORCHESTRA DEI POMERIGGI MUSICALI DI MILANO
CORO DEL TEATRO DELLA FORTUNA
Mº Mirca Rosciani
ORCHESTRA SINFONICA G. ROSSINI
Violetta FRANCESCA SASSU, CRISTIN ARSENOVA, KAREN GARDEAZABAL
Alfredo VALERIO BORGIONI, VINCENZO SPINELLI
Germont VINCENZO NIZZARDO, MATIJA MEIC, ANDREA BORGHINI
Flora REUT VENTORERO
Annina SHARON ZHAI
Gastone GIACOMO LEONE
Marchese ALESSANDRO ABIS, LORENZO MAZZUCCHELLI
Barone ALFONSO MICHELE CIULLA
Dottore NICOLA CIANCIO
Giuseppe ERMES NIZZARDO, MARCO MIGNANI
Domestico/Commissionario FILIPPO QUARTI, SIMONE NICOLETTO
mimi MARINA BUELLI, JONATHAN MARCHESE, JESSICA RAPELLI, GIOVANNI ROTOLO, DAVIDE SENSALES
Dear Spectator,
whether you are a long-time subscriber or whether this is your first time at the theatre, I am persuaded that La traviata represents a comfortable choice.
After all, if there is something well-known and reassuring about this opera, it is because - after one hundred and seventy years of glorious performance - the troubled lovestory between a prostitute and a well-born young man has become a common narrative "topos" in mainstream culture far beyond opera.
Speaking for myself, I'm intimately persuaded that our long and regular relationship has made us accustomed to Traviata, and perhaps I needn't apologise, dear Spectator, if everything we will soon represent on stage is done as an attempt to make your seat a little less comfortable.
I wish we would stop being satisfied with a rhetorical and morally accommodating epilogue in which a redeemed “Magdalene” ascends to heaven as a humble virgin.
If Traviata lives today as it did a hundred and seventy years ago, whoever sees her must experience the conflict between a prejudice that accompanies himself and a plot that lays it down naked in front of the human being.
There is nothing uplifting or romantic in the final death, but just a cruel and desolating mirror; there's not any bourgeois drama of common morality, but an intimate tragedy of the human being, 'sick of prejudice' so much as to make it his own opinion.
Violetta does not proudly die claiming her own identity, but embodying that hypocritical expectation that has troubled her existence; she struggles but doesn't fight, she is looking for a deserved martyrdom that will redeem her from guilt.
You decide, beloved Spectator, whether there is a guilt or just a prejudice sitting near us.
Luca
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Caro Spettatore,
che tu sia abbonato da tempo o che per te sia la prima volta a teatro, sono convinto che La traviata rappresenti una scelta confortevole.
Se c’è, in fondo, qualcosa di noto e rassicurante in quest’opera è perchè, dopo centosettant’anni di gloriosa rappresentazione, la love-story complicata fra una prostituta e un giovane di buona famiglia è diventata un topos narrativo popolare, comune nella cultura di massa ben oltre la lirica.
Per conto mio, sono intimamente convinto che la lunga e assidua frequentazione ci abbia assuefatti a Traviata e forse non devo scusami, caro Spettatore, se tutto quel che porteremo in scena fra poco sarà fatto nel tentativo di rendere la tua poltrona un po’ meno comoda.
Vorrei che smettessimo di accontentarci di un epilogo retorico e moralmente accomodante, in cui una “Maddalena” redenta ascende al cielo come una pudica vergine. Se Traviata è viva, oggi come centosettant’anni fa, chi vi assiste deve provare la contraddizione fra un pregiudizio che l’accompagna e un racconto che lo mette a nudo, davanti all’essere umano.
Non c’è nella morte finale nulla di edificante, né di romantico, ma solo uno specchio crudele e desolante; non c’è un dramma borghese della comune morale, ma una tragedia intima dell’essere umano, “malato” di pregiudizio al punto di farne egli stesso opinione di sé.
Violetta non muore rivendicando orgogliosamente la propria identità, ma incarnando quell’aspettativa sterile e ipocrita che le ha rovinato l’esistenza; si strugge ma non combatte, pare quasi alla ricerca di un meritato martirio che la riscatti dalla colpa.
Decidi tu, amico Spettatore, se una colpa esiste o esiste solamente un pregiudizio che siede in poltrona insieme a noi.
Luca
📷 Studio B12 di Guarneri Gianpaolo - 📷 Salvo Liuzzi - 📷 Marilena Imbrescia
1) Dalle note di regia si preannuncia una "Traviata" nel segno dell'innovazione e della rottura con il passato. Su cosa, dunque, ha puntato la sua regia?
C’è senza dubbio la volontà di rompere con certe prassi interpretative di questo titolo così rappresentato e dell’Opera più in generale; sul termine “innovazione” credo invece di dover essere più cauto: il punto di partenza per il nostro team creativo è stata infatti la ricerca di un approccio “virgineo” al testo, di una libertà dai condizionamenti, dalle stanche abitudini nate dalla più che secolare frequentazione del pubblico con questo titolo.
Ci siamo resi conto che “La traviata” di Verdi, al pari della sua protagonista Violetta, porta il peso di un’aspettativa, in definitiva di un pregiudizio che accompagna ogni spettatore in sala.
2) Una regia che in qualche modo riscatta il "ruolo" di vittima di Traviata?
Vogliamo liberare il personaggio di Violetta da una certa aura idealizzata di eroina romantica alla quale la tradizione ci ha abituati.
C’è in lei una continua contraddizione fra le intenzioni e le azioni, fra le parole e i fatti, c’è una fragilità che è figlia di un pregiudizio certo esterno ma interiorizzato, intimamente creduto vero. Violetta è una sconfitta, una perdente che sente di dover rimediare ad una colpa fino al martirio; non accetta se stessa e per questo non riesce a reagire. Dev’essere la coscienza di ciascun spettatore a dire se una colpa esiste davvero.
3) Alfredo e il padre Giorgio, che rivestono ruoli non proprio edificanti, come ne escono?
I Germont, come tutti i personaggi attorno a Violetta, fanno parte di un mondo ricco e distratto, frenetico e vacuo. C’è un rapporto teso fra Alfredo, immaturo e ribelle, e Giorgio, padre oppressivo che sente vacillare la sua posizione di maschio alfa. In questo scontro all’interno della “famiglia tradizionale”, Violetta diventa per entrambi uno strumento della contesa. Alfredo si infatua di un proibito che rappresenta una ribellione all’ingerenza paterna e il suo innamoramento superficiale vacilla al primo sospetto; dal punto di vista di Giorgio la relazione sconveniente di Alfredo altro non è che l’ennesimo colpo di testa di un figlio ingestibile e inadeguato, caduto nelle mani di una poco di buono che punta solo a “spennarlo”.
4) E' stato complicato trovare l'accordo con il libretto e con la musica di Verdi?
Decisamente no. Quando anche le soluzioni si sono fatte attendere a lungo - penso alla scena finale che abbiamo risolto solo all’ultimo istante - l’indicazione giusta è sempre stata lì, nel testo e nella musica; credo che a chi assista a questa Traviata non sia richiesto alcuno sforzo di traduzione fra il testo cantato e l’azione scenica.
5) Per non stupire completamente lo spettatore può darci qualche anticipazione sull'ambientazione della sua Traviata?
Nei suoi scritti, Verdi afferma in più modi di esse alla ricerca di un “soggetto dell’epoca”di chi vi assiste, destinato ad “un pubblico sempre teso a cercare in argomenti inusuali un confine alla propria moralità.” Non a caso la censura intervenne proprio sull’ambientazione storica, trasportando la vicenda indietro di un secolo.
Credo che la caratteristica straordinaria di quest’opera eterna sia proprio quella di richiedere un contesto sempre contemporaneo all’occhio dello spettatore, anno dopo anno e giorno dopo giorno. È una condizione indispensabile, che si lega a doppio con la tensione verso i ricercati “confini della moralità”
6) Lei e il team creativo con lei siete i vincitori del Bando under 35 per il titolo dell'opera. Cosa si aspetta da questo debutto?
Lavoriamo su questo progetto ormai da un anno e siamo davvero impazienti di portarlo in scena. Ci siamo preparati a fondo per realizzare concretamente la nostra visione nell’ultimo mese qui al Ponchielli di Cremona, un teatro che è una famiglia fatta di persone straordinarie, dove gli spettacoli nascono in un clima ideale.
È stato un lavoro totalizzante, che non ci ha lasciato tempo - per fortuna? - di pensare al dopo.
7) Lei è molto giovane. Che rapporto ha, e che futuro si immagina per l'opera lirica?
Mi piacerebbe che l’Opera, come genere performativo, potesse affrancarsi dalla retorica di facciata. Lungi da me il voler negare il valore culturale, il patrimonio nazionale, la tutela eccetera, ma non credo saranno questi gli argomenti che continueranno a portare a teatro le persone. Ci vuole passione, anche il coraggio di sporcarsi le mani con questo materiale meraviglioso, perchè è teatro e in quanto tale si rivolge ad uno spettatore presente.
L’alternativa, pure legittima, è proporre l’Opera come semplice rievocazione.
CARLA PARMIGIANI
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Una Traviata che voleva scuotere lo spettatore e così è stata quella che ieri sera al Ponchielli ha portato in scena una Violetta Valery in versione l’intenzione di rileggere il libretto di Piave musicato da Giuseppe Verdi, per transgender. Le note di regia di Luca Baracchini già lasciavano intendere
rendere “la poltrona un po’ meno comoda. Vorrei che smettessimo di accontentarci di un epilogo retorico e moralmente accomodante, in cui una “Maddalena” redenta ascende al cielo come una pudica vergine”.
Più applausi che fischi (anche se molto rumorosi) dal pubblico, per questa versione molto moderna coprodotta dai Teatri di OperaLombardia e Fondazione Rete Lirica delle Marche, in alcuni punti un po’ azzardata come nella Danza delle Zingarelle, ambientata in una discoteca dove la festa è diventata un festino “bondage” con maschere e frustini. Una versione provocatoria dell’opera che raggiunto il suo scopo, far riflettere il pubblico sulle questioni di genere.
A parte i fischi dei puristi, alla fine sono arrivati gli applausi sia per la messa in scena, che per gli interpreti (nel ruolo di Violetta Francesca Sassu e Cristin Arsenova), che per il coro di Opera Lombardia diretto da Massimo Fiocchi Malaspina e per l’orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano.
D’altra parte a spiegare il senso di questa produzione è lo stesso Baracchini nelle note di regia: “Se Traviata è viva, oggi come centosettant’anni fa, chi vi assiste deve provare la contraddizione fra un pregiudizio che l’accompagna e un racconto che lo mette a nudo, davanti all’essere umano. Non c’è nella morte finale nulla di edificante, né di romantico, ma solo uno specchio crudele e desolante; non c’è un dramma borghese della comune morale, ma una tragedia intima dell’essere umano, “malato” di pregiudizio al punto di farne egli stesso opinione di sé. Violetta non muore rivendicando orgogliosamente la propria identità, ma incarnando quell’aspettativa sterile e ipocrita che le ha rovinato l’esistenza; si strugge ma non combatte, pare quasi alla ricerca di un meritato martirio che la riscatti dalla colpa. Decidi tu, amico Spettatore, se una colpa esiste o esiste solamente un pregiudizio che siede in poltrona insieme a noi”.
Rivista anche la partitura musicale da parte del direttore d’orchestra Enrico Lombardi. Paragonando arie arcinote come “Amami, Alfredo” o “Libiamo ne’ lieti calici” agli incipit di opere letterarie come la Divina Commedia o I Promessi Sposti, Lombardi decide di “illuminare davvero i numerosi dettagli, i piccoli preziosismi scritti – o se vogliamo, i “colori” – di questo grande quadro. E forse potremmo scoprire che, contrariamente a quanto si dice di solito, La traviata non soltanto “si sa”, ma si può anche (ri)studiare”.
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A traviata that wanted to shock the viewer, and so was the one that staged a transgender version of Violetta Valery at the Ponchielli last night. The director’s notes by Luca Baracchini already indicated his intention to reread Piave’s libretto, set to music by Giuseppe Verdi, “to make the armchair a little more uncomfortable. I wish we were no longer content with a rhetorical and morally accommodating epilogue in which a redeemed “Magdalene” ascends to heaven as a humble virgin.
More applause than boos (albeit very loud) from the audience for this very modern version, co-produced by the Theaters of OperaLombardia and the Fondazione Rete Lirica delle Marche, which is a bit risqué at some points as in the Danza delle Zingarelle set in a set is disco, where the party has become a “bondage” party with masks and whips. A provocative version of the work that achieved its goal of making the public think about gender issues.
Apart from the boos from the purists, at the end there was applause for both the production and the actors (in the roles of Violetta Francesca Sassu and Cristin Arsenova), as well as for the chorus of Opera Lombardia, conducted by Massimo Fiocchi Malaspina, and for the orchestra the Pomeriggi Musicali Milan.
On the other hand, Baracchini himself explains the meaning of this staging in the director’s notes: “If Traviata lives today as it did a hundred and seventy years ago, whoever sees her must experience the contradiction between a prejudice that accompanies her and one that lays her down naked in front of man. There is nothing edifying or romantic about final death, only a cruel and devastating mirror; there is no bourgeois drama of common morality, but an intimate tragedy of man “sick” of prejudice until he forms his own opinion. Violetta does not die proud of her identity but embodies that sterile and hypocritical expectation that has ruined her existence; she longs, but does not fight, she almost seems to be looking for a deserved martyrdom to redeem her from her guilt. You decide, dear spectator, whether there is a mistake or just a prejudice that sits in our armchair”.
The score was also revised by the conductor Enrico Lombardi. Lombardi compares well-known arias such as “Amami, Alfredo” or “Libiamo ne’ felici calici” with the incipits of literary works such as the Divine Comedy or I Promessi Sposti and decides “to really illuminate the many details, the small precious writings – or if they so to speak, the “colors” – of this big whole. And perhaps we could discover that, contrary to what is usually said, La traviata is not only “known” but can also be (re)studied”.
ASHLEY CORNELL
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La Traviata in versione trans, secondo il regista Luca Baracchini, che l’ha mandata in scena al teatro Ponchielli di Cremona e poi al Sociale di Como incassando fischi e urla di disapprovazione, in questi tempi di “politicamente corretto” ci sta tutta. Anzi, è in bel messaggio, a prescindere dalla “violenza” inflitta all’autore dell’opera, non proprio l’ultimo fesso, tal Giuseppe Verdi.
La Traviata rivista in chiave trans con frustini e scene bondage
“V’è nella morte finale nulla di edificante, né di romantico, ma solo uno specchio crudele e desolante; non c’è un dramma borghese della comune morale, ma una tragedia intima dell’essere umano, ‘malato’ di pregiudizio al punto di farne egli stesso opinione di sé. Violetta non muore rivendicando orgogliosamente la propria identità, ma incarnando quell’aspettativa sterile e ipocrita che le ha rovinato l’esistenza; si strugge ma non combatte, pare quasi alla ricerca di un meritato martirio che la riscatti dalla colpa. Decidi tu, amico Spettatore, se una colpa esiste o esiste solamente un pregiudizio che siede in poltrona insieme a noi”, scrive Baracchini nell’introduzione del suo lavoro, che prosegue la sua tournée nel Bresciano. I pregiudizi, dunque, sono il problema di chi non capirà, come gli spettatori dei teatri di Cremona e Como che secondo i giornali locali non avrebbero preso benissimo quelle varianti “gender” e “sadomaso” di Violetta, frustini compresi.
I fischi del pubblico per una provocazione sterile
“Questa produzione di Traviata sembrava destinata a scandalizzare e far discutere parecchio. Alla fine l’obiettivo è stato – parzialmente – raggiunto: Traviata si è conclusa con un’ampia contestazione indirizzata alla regia di Luca Baracchini. Fischi, buuh e vergogna dal loggione alla platea, espressione di un pubblico che mal tollera la piega meramente provocatoria che spesso talune regie operistiche finiscono per assumere…”, scrive La Provincia di Cremona.
“Violetta passa quasi l’intera opera in compagnia di un suo alter ego mimo che in modo eloquente, ma non troppo efficace, esprime questo conflitto fra la registica Violetta-uomo e quella femminile. E fin qui ci sta tutto. Non fosse che il coro di zingarelle e mattadori si è trasformato in un festino a base di frustini, di avances fra uomini, di bondage con tanto di maschera con le corna…”, proseguono le cronache sulla Traviata trans.
La difesa del regista: “Volevo fare un Verdi contemporaneo…”
Il regista Luca Baracchini, alla Provincia di Cremona, non ha rinnegato la sua “provocazione”, anzi, l’ha rivendicata. “Verdi si sente profondamente italiano, ma è anche un anti-italiano che mette in evidenza le contraddizioni e le ipocrisie della società del suo tempo, in particolare della borghesia molto bigotta. Allo stesso modo questa Traviata racconta la realtà e la società contemporanea, una realtà e una società con cui vale la pena confrontarsi perché è in questa società e in questa realtà che tutti noi viviamo”.
MONICA PUCCI
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Ci mancava solo Giuseppe Verdi in versione Lgbt ed arcobaleno. Questa volta, protagonista dell’opera politicamente corretta è il regista Luca Baracchini, che ha “rimodellato” La Traviata del grande Verdi in una sorta di spettacolo transgender. Violetta Valery vive nel dubbio della sua identità di genere, specchiandosi costantemente e non riconoscendosi nel proprio sesso. Accanto a lei, tutti gli altri personaggi sono vestiti e truccati da drag queen. Il tutto culminato con il coro di zingarelle e mattadori trasformato in un festino a base di frustini, avance fra uomini e bondage con tanto di maschera con le corna.
Insomma, è il tentativo di utilizzare i maestri del passato nella propaganda politica, di catapultarli nella realtà dei nostri giorni, sempre con un colore conforme al mondo del progressismo e della sinistra, quella vera, a tutela dei diritti delle minoranze. Un risultato, però, che non ha ottenuto l’obiettivo sperato. Dalla platea del Ponchielli, il principale teatro di Cremona, si è levato uno scudo di fischi, “Buu” e “vergogna”, che sono costati la bocciatura del regista e della sua nuova opera in salsa politically correct.
Ma non si tratta della prima opera revisionata e storpiata. Pochi mesi fa, infatti, La Tempesta, il capolavoro del drammaturgo William Shakespeare, è stata rimodellata secondo i canoni progressisti perché poteva essere interpretata in una lettura discriminatoria nei confronti delle minoranze. E ancora, tanto per rimanere in tema di revisionismo storico, proprio nella manifestazione “Cremona Pride” dello scorso giugno, ha accompagnato per tutto il corteo una Madonna in versione Lgbt, senza che nessuno dei partecipanti battesse ciglio.
Insomma, se ci fosse stata una medesima scena contro Allah (magari anche derivante da una piazza di destra), probabilmente il trattamento non sarebbe stato lo stesso. Inutile dire che cosa avremmo letto sulla stampa nazionale: si sarebbero levati gli scudi del razzismo, della xenofobia e dell’intolleranza. Narrazioni che, puntualmente, non si sono verificate a sinistra.
Eppure, tanto per non farci mancare nulla, il regista non indietreggia e continua a difendere la versione Lgbt de La Traviata. Anzi, la rimarca senza mezzi termini: “Verdi si sente profondamente italiano, ma è anche un anti-italiano che mette in evidenza le contraddizioni e le ipocrisie della società del suo tempo, in particolare della borghesia molto bigotta. Allo stesso modo, questa Traviata racconta la realtà e la società contemporanea, una realtà e una società con cui vale la pena confrontarsi perché è in questa società e in questa realtà che tutti noi viviamo”.
Eppure, pare che gli spettatori abbiano cassato senza mezzi termini questa versione politicamente corretta contemporanea. Vorreste vedere le vere (e splendide) opere di Giuseppe Verdi o una loro rimodulazione in salsa Lgbt? Vorreste leggere la vera (e splendida) Divina Commedia di Dante, o lo straordinario Decameron di Boccaccio, nella loto versione originale oppure con un taglio arcobaleno? Noi abbiamo le idee chiare, ma forse siamo solo dei pericolosi tradizionalisti…
MATTEO MILANESI
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L’inconfessabile fa paura. Turba, conturba, ma soprattutto disturba. In teatro come nella vita. In scena provoca clamori, in loggione scatena bordate di indignazione. Quarto titolo in cartellone, il 2 e 4 dicembre scorsi, la verdiana Traviata ha richiamato al Teatro Ponchielli di Cremona un pubblico se possibile ancor più numeroso del solito. Tutti lì ad aspettarne le pagine celeberrime, ormai assurte ad immancabili tormentoni nei concerti di gala: il brindisi iniziale, il folleggiare spavaldo di Violetta, l’aria cinica e compassata di padre Germont, l’addio alla vita di una donna ormai alla fine dei suoi giorni.
Tutti lì, a vivere e a rivivere la più pop delle creature della cosiddetta Trilogia Popolare. Ma, a sorpresa, niente ciprie né velluti: nessuna concessione alle svenevoli morbidezze di tanta tradizione. Nella regia di Luca Baracchini, musicalmente tradotta con puntuale aderenza dalla concertazione (altrettanto concreta, ma in più momenti sin troppo spiccia, sempre in avanti rispetto al palco, senza troppo badare ai chiaroscuri né alle profondità di una così stratificata partitura) di Enrico Lombardi, alla testa dell’Orchestra de I Pomeriggi Musicali, il dramma che muoveva questa Traviata si insinuava asciutto, sliricato, prima nei luoghi di una movida contemporanea, tutta cristalli e neon, vizi e scollature, poi nell’interno qualunque di una casa in stile Ikea, carina quanto provvisoria, fatta apposta per essere montata e smontata con la stessa velocità. Nei primi si beve, si fuma, si ammazzano serate uguali a sé stesse, tra sesso facile e noia malcelata. Tutto sembra scorrere fluido, rituale quanto equivoco: le parole vuote, gli sguardi persi su un’umanità stereotipata, il languido scivolare di creature avvenenti dalla sessualità ambigua.
Nel secondo, la luce è quella diurna che filtra da una finestra della cucina; le pareti sono da tinteggiare, i mobili - un tavolo, un letto, qualche generico quadretto alla parete - dicono di una coppia giovane, con l’entusiasmo degli inizi. Qui, in questa seconda vita conquistata al prezzo di una camelia donata come pegno d’amore, tutto sembra possibile, anche il lasciarsi alle spalle la morsa di una finta felicità. Eppure, è qui che Violetta abbassa lo sguardo e acconsente alla propria condanna, accettando quasi senza colpo ferire di rinunciare a quell’unico amore giunto tardivo, quando ormai lo stoppino della vita comincia ad accorciarsi, morso dalla malattia che avanza. Qual è l’arma segreta di papà Germont (qui scolpito con una puntualità non scevra da qualche genericità da Vincenzo Nizzardo)? Quale forza persuasiva nascondono le sue parole con cui le chiede (le ordina?) di sparire dalla vita del figlio per non infamare il buon nome della famiglia? Non certo un passato sentimentalmente disinvolto, non certo una femminilità vissuta con ostentata spregiudicatezza. Nel 1853, ma non certo oggi. In questo taglio registico, la chiave è nella scena iniziale: una figura in abiti femminili, davanti a uno specchio. Si guarda, si scruta, si spoglia. E, via la camicetta, via la gonna, questa figura si scopre uomo. Un uomo fragile, sensibile, visibilmente tormentato da un’inquietudine che lo divora. È Violetta, o meglio, è l’involucro di Violetta, prima di una metamorfosi che lo porterà, in abiti maschili rubati a Marlene Dietrich, a giocare alla seduttrice nel corpo di una donna. Eccolo, l’inconfessabile. Il tabu che il nostro tempo si ostina a rimuovere, a ignorare, a sublimare per non doverci inciampare contro. E l’ipocrisia del bel salotto borghese in cui Flora (la brava Raut Ventorero) allestisce una festa con tanto di zingarelle queer con frustino è una trasgressione parcheggiata nel ristretto perimetro di una gabbia dorata, con luci artificiali. Un non luogo in cui vale tutto. Fuori, nessuno deve sapere, nessuno deve sospettare. La lacerazione di una creatura perennemente abitata dal proprio doppio è il pedale di continuo di questa regia che vede la protagonista continuamente visitata dalla sua proiezione al maschile. Lei è lui, e viceversa; in questo groviglio inscindibile scorrono, su due corpi che in realtà sono uno, l’esaltazione dell’innamoramento e il baratro della propria auto-condanna, accettata come si accetta l’inevitabile. Ha lo stesso color bluastro dei cocktail serviti a fiumi nel locale di Douphol, ma a Violetta deve sembrare amara, amarissima, la medicina prescrittale dal dottor Grenvil (il puntuale Nicola Cianco) contro la tisi che galoppa; lei – una Francesca Sassu coraggiosa e convincente ma piuttosto algida nello scavo interpretativo, con qualche sfarfallio nell’intonazione - la ingoia d’un sorso, d’impeto, quasi fosse veleno con cui accelerare la fine, mentre all’unisono il suo alter ego (un intenso Giovanni Rotolo) si lancia contro lo specchio che campeggia sul fondo e, con la stessa rabbiosa disperazione, si tuffa in un disperato autoerotismo (o un tentativo di autoevirazione?). Sembra detestarlo, quel corpo sbagliato, e con esso sembra voler cancellare la figura che lo specchio, impietoso, gli restituisce.
Alla fine, si torna sempre lì. All’immagine proiettata, quella a cui non si sfugge. “Amati”: contro quel vetro, con segni di vernice come pennellate di sangue, l’alter ego di Violetta traccia l’imperativo supremo, mentre lei si appresta a congedarsi, con un estremo canto d’amore, dal suo Alfredo, un Valerio Borgioni elegante, dal timbro naturale e seduttivo, al netto di qualche sbavatura nell’intonazione e di un legato non sempre impeccabile. Un motto perfetto per i festini da Douphol, ma soprattutto un monito personale, un estremo appello a conservare intatta la propria immagine interiore, al riparo dagli assalti del giudizio. Se il primo atto in questa Traviata è sguaiatamente esibito, pubblico, ostentato, con bella scelta, l’ultimo è un dramma totalmente interiore, consumato dietro una tenda che alona i contorni e i dettagli. La scena vista da lontano. Come a dire che non ci riguarda, non ci deve riguardare. Tanto il ricongiungimento, tardivo, appunto, tra i due innamorati, alla presenza di papà Germont, medico e Annina (la discreta Sharon Zhai), ad un soffio dalla morte di Violetta, quanto l’assistere impotenti, probabilmente straziati dal rimorso, al suo spegnersi. Sono loro nell’oscurità quando Violetta verrà visitata dalla morte. Lei è invece illuminata, al centro della scena, finalmente libera, finalmente in pace, con il suo doppio vicino al suo corpo, ormai inerte. La chiusura del cerchio, la pace eterna, dopo tanto dolore. Se alla prima di venerdì i fischi erano piovuti a secchiate sulla regia, un altrettanto torrenziale trionfo si è abbattuto sulla pomeridiana di domenica, a dispetto dell’età media non certo da debuttanti. Tanti gli over 60, per non dire 70, con immancabile sottofondo cantato delle arie hit, con buona pace dei vicini di poltrona, noi compresi.
ELIDE BERGAMASCHI
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È una Violetta spaesata, vagante in “quel popoloso deserto che appellano Parigi” alla ricerca della propria identità – personale, sociale, sessuale – quella che abbiamo visto muoversi sul palcoscenico del teatro Ponchielli di Cremona in occasione del debutto di questa nuova produzione de La traviata di Giuseppe Verdi. Un allestimento che ha visto il teatro cremonese capofila nell’ambito di una coproduzione dei teatri di OperaLombardia e Fondazione Rete Lirica delle Marche, per uno spettacolo guidato dalla direzione musicale di Enrico Lombardi e segnato dalla regia di Luca Baracchini, quest’ultimo risultato vincitore, con il suo giovane team creativo, del bando Under35 per il progetto di regia del titolo per lo stesso Circuito OperaLombardia 2022/23.
Partiamo quindi dalla lettura proposta da Luca Baracchini, la quale si dichiarava, fin dalle note di regia ospitate nel libretto di sala, intenta a rendere la poltrona dello spettatore «un po’ meno comoda. Vorrei che smettessimo – annota Baracchini – di accontentarci di un epilogo retorico e moralmente accomodante, in cui una “Maddalena” redenta ascende al cielo come una pudica vergine. Se Traviata è viva – prosegue il regista –, oggi come centosettant’anni fa, chi vi assiste deve provare la contraddizione fra un pregiudizio che l’accompagna e un racconto che lo mette a nudo, davanti all’essere umano».
Una contraddizione qui risolta nell’ipotesi di una Violetta combattuta nella sua identità sessuale, accompagnata nei tre atti da un mimo alter-ego che, da iniziale ideale specchio della propria anima, diviene plastica rappresentazione, all’inizio dell’ultimo atto, di un travaglio, anche fisico, lacerante: quello di un uomo che si evira per divenire donna (ma il dramma dell'identità di genere può essere naturalmente anche inverso).
In questa prospettiva sta forse la cifra un poco ingenua della lettura di Baracchini la quale, nel voler “attualizzare” – si fa per dire – le derive scandalistiche in evocazioni di pratiche sado-maso, bondage e diverse varietà di personaggi transessuali e travestiti, perde di vista ciò che lo stesso Verdi aveva infuso nella sua Traviata: «A Venezia faccio la Dame aux Camelias che avrà per titolo, forse, Traviata. Un soggetto dell’epoca. Un altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, pei tempi, e per altri mille goffi scrupoli… Io lo faccio con tutto il piacere». In questa lettera a Cesare De Sanctis del gennaio 1853 il compositore evidenzia uno sguardo critico sulla società nella quale vive – i “costumi”, i “tempi” – e che riamane attualissimo: la decadenza morale di una borghesia ricca, annoiata, corrotta e moralmente bolsa la quale, dietro il paravento di presunte perversioni sessuali da condannare – apparentemente – senza appello, esorcizza – e quindi nasconde – la propria debole pochezza etica e umana. In questo modo una parte del pubblico può contestare il “travestito” perché di cattivo gusto – o peggio, perché “questo non è Verdi” – ma far finta di nulla di fronte al marito che tradisce la moglie – e viceversa – negandolo ipocritamente o di fronte al denaro che compra la dignità delle persone e il buon nome delle cosiddette “famiglie per bene”, e così via.
Un quadro che ha trovato spazio in una dimensione scenica disegnata dal regista – con la collaborazione di Francesca Sgariboldi (scene), Donato Didonna (costumi) e Gianni Bertoli (luci) – tra locali da ballo al neon vagamente anni Ottanta e case di campagna dagli arredamenti minimali stile Ikea nel complesso funzionali – così come i movimenti di scena – alla contestualizzazione drammaturgica della vicenda.
In questa prospettiva è emersa l’interessante lettura musicale offerta da Enrico Lombardi, caratterizzata da un lato da un segno interpretativo che recuperava certi abbellimenti vocali, dall’altro da una scelta dei tempi marcati nel complesso con un passo efficacemente serrato, attraversato peraltro da respiri più dilatati in alcune circostanze quali, per esempio, “Di Provenza il mare e il suol” – che ci ha ricordato la definizione del Caponi rievocata da Mila come aria «uggiosa e interminabile», ma per più per la natura del brano che per la direzione – o “Addio del passato”, con una Violetta sospesa in un arco espressivo forse troppo disteso.
Rimane la cifra decisamente apprezzabile della lettura di Lombardi capace, oltre che di restituire uno sguardo personale a un titolo così conosciuto, di tenere assieme la compagine orchestrale de I Pomeriggi Musicali di Milano e quella vocale del coro OperaLombardia – preparato da Massimo Fiocchi Malaspina – con polso sicuro, nonostante alcuni assestamenti nell’andamento di assieme che verranno probabilmente superati nelle successive tappe – Como, Brescia, Pavia – che seguiranno questo debutto cremonese.
Sul piano vocale buona prova per la Violetta di Francesca Sassu – impegnata nella “prima” del 2 dicembre – e dell’Alfredo di Valerio Borgioni, mentre il Germont padre di Vincenzo Nizzardo è parso solido ma espressivamente non sempre a fuoco. Ben assortite le voci di Flora (Reut Ventorero) e Annina (Sharon Zhai), adeguati il Gastone di Giacomo Leone, il Barone Douphol di Alfonso Michele Ciulla, il Marchese d’Obigny di Alessandro Abis e il Dottor Grenvi di Nicola Ciancio. Completavano il cast Ermes Nizzardo (Giuseppe) e Filippo Quarti (domestico di Flora, un commissario).
In occasione della “prima” il pubblico da tutto esaurito presente al Ponchielli ha applaudito in modo particolare tutti gli artisti impegnati sul versante musicale, riservando alcuni dissensi alla regia oltre che agli attori chiamati a recitare il ruolo di mimi travestiti, contestazione quest’ultima francamente fuori luogo perché rivolta non all’idea registica di per sé, ma ai professionisti presenti sul palcoscenico per svolgere il proprio lavoro.
ALESSANDRO RIGOLLI
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Un colpaccio di buona sorte fa sì che la disinibita lettura musicale di Lombardi si compenetri con una non meno affilata lettura teatrale, dovuta all'altrettanto giovane regista Luca Baracchini. Con mano delicata e per nulla scandalosa, egli colloca l'azione nell'età contemporanea e insinua il sospetto, mediante le controscene di un mimo, che Violetta sia una donna transessuale.
Non un suono né un verso, né le relazioni tra i ruoli nel dramma, sono alterati di conseguenza: ma quando Germont padre esordisce villanamente con Violetta, ed ella risponde «Donna son io, signore, ed in mia casa», lungo la schiena corre un brivido di verità davvero aggiornato al senso odierno; quando poi egli le ricorda che il perdono di Dio non significa perdono dell'uomo, e lei si sottomette alla sacralità della figura paterna, ciò aumenta addirittura di pena nella chiave aggiornata: a condizionare Violetta non è più il bigottismo seguito alla conversione, bensì il senso di colpa riemerso lungo il percorso di auto-accettazione. Non v'è bisogno di raccontare altro intorno a uno spunto forte e maturamente inquadrato; va invece esplicitato come Baracchini colga qui l'essenza di molto teatro verdiano, i cui protagonisti sono più spesso poveri diavoli dal sacrificio inutile che figure eroiche da prendere a modello. […]
FRANCESCO LORA
Ieri, venerdì 9 dicembre, è andata in scena, al Teatro Sociale di Como, una versione de La traviata di Verdi geniale e coraggiosa, assolutamente degna di aver vinto il bando di OperaLombardia, una coproduzione dei Teatri di OperaLombardia e Fondazione Rete Lirica delle Marche
Trascendendo le critiche lette dopo la prima al Ponchielli di Cremona dello scorso week-end, secondo noi, faziose e a pregiudiziali, lo spettacolo a cui abbiamo assistito ieri è stato veramente di qualità. Il giovanissimo TEAM DUPHOL’S, composto da Luca Baracchini (regia), Francesca Sgariboldi (scene), Donato Didonna (costumi) e Gianni Bertoli (luci), ha dato prova di originalità e profonda conoscenza dell’opera e soprattutto della volontà che mosse Verdi a partorirla, ispirato da La signora delle camelie (La Dame aux camélias) di Alexandre Dumas figlio.
Luca Baracchini ha una visione registica chiara che persegue in modo attento e preciso, non lasciando nulla al caso, gestendo con maestria gli spazi e aggiungendo dei dettagli assolutamente innovativi. In primis, la sua rivisitazione del personaggio di Violetta come transgender, a nostro avviso, è assolutamente contemporanea e pertinente: il suo è un lavoro di esplorazione dell’identità del personaggio e di tutto ciò che una scelta radicale come quella può comportare socialmente. Il voyeurismo borghese presente nell’opera diventa l’occhio di una società ancora non pronta ad accogliere la diversità, di cui la transessualità è espressione evidente. Troppo spesso il percorso di trasmutazione di genere non prevede un’opportuna inclusività sociale e la prostituzione diventa una delle strade più battute per sopravvivere. La Violetta di Baracchini invece si lascia inebriare dall’amore di Alfredo e il suo essere una povera donna, sola, abbandonata in questo popoloso deserto che appellano Parigi si trasforma grazie alla purezza di un sentimento a cui decide di abbondarsi con fiducia. Per la prima volta sperimenta l’autenticità, vive la gioia di essere amato amando e finalmente fa saltare i suoi conti, le sue strategie, il suo passato e le sue abitudini per dedicarsi a un serio amore. Sarà poi Giorgio Germont a obbligarla a lasciare Alfredo, probabilmente non accettando che suo figlio possa sporcarsi con una “poco di buono”, una “deviata”, una “contro-natura”, andando contro la tradizione cattolica e il senso procreativo della famiglia, e mettendo in ridicolo il proprio nome: il matrimonio della figlia diventa così semplicemente la giustificazione superficiale che nasconde questo terribile pregiudizio. Intenso il rapporto tra Violetta e il suo maschile che, a volte, pare la sua anima e altre la sua coscienza. Giovanni Rotolo incarna perfettamente il ruolo dell’alter ego, coadiuvato da una corporeità perfettamente idonea e dalla scelta registica del dialogo costante con lo specchio o con la sua esteriorità, Violetta appunto. Solo alla fine ci sarà una fusione completa della dualità (luci e ombre, passato e presente, maschile e femminile, materia e spirito) che porterà alla trasfigurazione attraverso la comprensione, dove l’elemento prettamente religioso viene sfumato divenendo più esistenziale e universale.
Forse lo avremmo voluto più in scena in particolare nel secondo atto durante il dialogo tra Violetta e Giorgio Germont, in cui giunge solo alla fine, e quando, alla festa di Flora, la donna viene pubblicamente ripudiata dall’uomo che amava (Alfredo, Alfredo, di questo core non puoi comprendere tutto l’amore; tu non conosci che fino a prezzo del tuo disprezzo – provato io l’ho!). Al di là del nostro desiderata, la sua funzione viene assolutamente assolta e arriva al pubblico.
Abbiamo anche apprezzato, la contrapposizione nel primo atto fra il piacevole primo vero incontro tra Alfredo e Violetta in cui lui le racconta da quando fu stato folgorato da lei, manifestazione dell’amore cortese, e la scena sessualmente brutale che si stava consumando come sfondo, espressione dell’amore libidinoso, ulteriore scena in cui forse l’alter ego uomo di Violetta avrebbe potuto fare una comparsata.
Molto bello il messaggio "Amati" che Giovanni Rotolo scrive sul vetro, come monito per tutti, come leva fondamentale per una vita più serena e appagante.
Singolare, ma degno di nota, l’ingresso di Alfredo come torero, alla fine del secondo quadro del secondo atto: un modo per sottolineare il suo delirio dopo l’abbandono della donna amata, per segnalare il suo essere stato tradito, e per marcare il suo ritorno ai facili costumi, la sua “perdizione” animica e il suo squilibrio emotivo. Simbolico, inoltre, l’uso finale del tulle atto forse a marcare la volontà della protagonista di trovarsi in un sogno, in un’allucinazione, oppure a distinguere la sua totale separazione dalla forma o dalla vita ordinaria, in uno slancio in quella straordinaria.
Abbiamo trovato invece troppo il sostituire le zingarelle con dei travestiti in versione sadomaso: decisamente grottesco, di poco gusto e confusionario anche per la presenza dello stesso transgender di statura altissima e quindi assolutamente visibile che dà una continuità inesistente con la festa a casa di Violetta.
La regia di Luca Baracchini ha potuto contare sulle scene funzionali e ben curate di Francesca Sgariboldi, sui costumi coerenti, pertinenti e indovinati di Donato Didonna, e sulle luci ben gestite da Gianni Bertoli, di cui abbiamo apprezzato, in particolare, l’effetto “finestra” del terzo atto.
ANNUNZIATO GENTILUOMO
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Grande successo per la prima rappresentazione della Traviata di Verdi, con la regia di Luca Baracchini. Domani pomeriggio la replica
Un successo straordinario, in un teatro quasi sold out, che ha tributato moltissimi applausi a scena aperta al termine delle arie più famose: questo, in poche parole, il riassunto della prima della Traviata di Giuseppe Verdi, una coproduzione di Teatri di OperaLombardia e Fondazione Rete Lirica delle Marche, andata in scena ieri sera al Teatro Sociale di Como, quarto appuntamento con la lirica all’interno della stagione 2022/2023 dal titolo Natura est Vita.
Una scelta registica coraggiosa, quella fatta dal vincitore del bando di OperaLombardia, il progetto del giovanissimo TEAM DUPHOL’S, composto da Luca Baracchini (regia), Francesca Sgariboldi (scene), Donato Didonna (costumi) e Gianni Bertoli (luci), che ha voluto portare Traviata in una dimensione moderna, spregiudicata e drammatica, capace di emozionare e far riflettere sui pregiudizi e sulle differenze, su quello che viene ancora considerato scandaloso e sul bisogno, di ognuno e di ognuna, di riconoscere e vedere riconosciuta la propria identità.
Al giovane Maestro Enrico Lombardi è spettato il compito di dirigere il Coro OperaLombardia, l’orchestra de I Pomeriggi Musicali, e il cast, composto da un’intensa Francesca Sassu nel ruolo di Violetta Valery, un convincente Valerio Borgioni ad interpretare Alfredo Germont e un bravissimo Vincenzo Nizzardo nei panni di Giorgio Germont.
Un’opera circolare, quella messa in scena da Baracchini, in cui Violetta, per tutti e tre gli atti, combatte una battaglia contro sé stessa e il suo passato, quel passato in cui, accanto alla sua scelta di genere e all’affermazione della sua identità, c’è anche il continuo pregiudizio del mondo esterno, la paura, il senso di colpa di non essere “degna” di amore e felicità. Commovente, lungo tutto lo spettacolo, il rapporto con il passato maschile di Violetta, che torna, tormenta, si affligge e punisce, ma allo stesso tempo abbraccia, consola ed esorta, concentrando il tutto in un unico, potente comandamento: AMATI.
Il finale, poi, da solo, merita l’intera visione dell’opera.
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“A Venezia faccio la Dame aux Camelias che avrà per titolo, forse, Traviata. Un soggetto dell’epoca. Un altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, per i tempi, e per altri mille goffi scrupoli…Io lo faccio con tutto il piacere. Tutti gridavano quando io proposi un gobbo da mettere in scena. Ebbene: io era felice di scrivere il Rigoletto”. Così vergava, il 1° gennaio 1853, Giuseppe Verdi in una lettera indirizzata al compositore e direttore d’orchestra Cesare De Sanctis, parlando della sua prossima opera, La traviata. Come è noto, la triste storia della demi-mondaine francese morta di tisi, volutamente situata dal Cigno di Busseto nella propria età, nella Parigi ottocentesca, al suo debutto al Teatro La Fenice fece scandalo e fu accolta da sonori fischi per molteplici motivi; fra questi, pure l’ambientazione cronologica coeva agli spettatori, ovvero nel XIX secolo: uno schiaffo alla moralità e alla società benpensante di quegli anni.
Da tale premessa, forse un po’ scontata, vorremmo partire per recensire la nuova produzione di Traviata che, dopo il contrastato debutto cremonese, è approdata al Teatro Sociale di Como. Il circuito di OperaLombardia ha indetto, nel 2021, un bando rivolto a un team creativo under 35, per la selezione di un progetto di regia per questo amato titolo della cosiddetta Trilogia popolare; è risultata vincitrice la squadra del giovane TEAM DUPHOL’S, guidata dal ventinovenne regista Luca Baracchini. Oggi come allora, la vicenda di Violetta Valery viene posta nella contemporaneità, per meglio sottolineare il messaggio cocente di pregiudizio e di ipocrisia insito nell’opera. Nella lettura di Baracchini, la cortigiana d’alto bordo che tanto sconcertò il pubblico del 1853, filtrata attraverso uno sguardo attuale diviene, dunque, una persona transgender incapace di accettare sé stessa, il proprio passato, la scelta di genere effettuata; per attenuare il senso di colpa e, soprattutto, superare il preconcetto nei suoi confronti, a Violetta non resta che entrare nel mercato del sesso e prostituirsi. A volte, è accompagnata in scena dal proprio io prima del percorso di transizione (impersonato intensamente da Giovanni Rotolo), un giovane in slip bianchi che le fa da contraltare nei momenti salienti. Alfredo è, invece, visto come un ragazzo nel fiore degli anni timido, inesperto e superficiale, proveniente da un retroterra agiato e facoltoso. Le lineari scene di Francesca Sgariboldi mostrano, nel I atto e nel quadro II del II atto, il night club “Duphol”, un “popoloso deserto” frequentato da prostitute, travestiti e avventori, caratterizzato da tubi e scritte al neon, un bancone bar, divanetti e tavolini; la casa di campagna e la camera da letto di Violetta sono, invece, rappresentate da una stanza nuda e spoglia, in corso di ristrutturazione, dominata da un grande specchio e da pochi elementi d’arredo minimal. Modaioli i bei costumi, di taglio contemporaneo, firmati da Donato Didonna, con una menzione di merito per quelli delle due feste (la protagonista indossa, nel I atto, uno smoking bianco con revers nero e inserti glitterati, nel II atto un abito femminile spagnoleggiante di colore rosso); esteticamente di notevole impatto le luci curate da Gianni Bertoli, spesso giocate con efficacia su aggressive cromie di sapore fauves. Nella serata si susseguono, via via, immagini forti, tragiche e viscerali (i due preludi con l’alter-ego maschile di Violetta e il drammatico finale), poetiche (l’incipit del II atto e lo struggente “Amami, Alfredo”, con l’io della protagonista che scrive sullo specchio “AMATI”, ovvero ama te stesso, accettati per come sei), di dubbio gusto (Flora e Gastone amoreggiano durante il duetto “Un dì, felice, eterea”, distogliendo così l’attenzione dai due innamorati; oppure il siparietto sadomaso durante il II atto).
Una chiave di lettura, quella del TEAM DUPHOL’S, sicuramente divisiva e che scontenterà una parte del pubblico, a tratti scomoda e che vuole invitare a riflettere, a porsi degli interrogativi su tematiche quali il pregiudizio e l’identità di genere. Uno spettacolo che ha fatto e che, probabilmente, farà discutere (nulla di grave, dopotutto il teatro è vivo!), nel quale, però, la tematica della transessualità della protagonista è solamente un punto di partenza, poco approfondito e che resta in superficie; risulta, piuttosto, una tragedia dell’intimità di Violetta, della sua interiorità, poco o nulla provocatoria e per niente scandalosa o trasgressiva. Per lasciare veramente il segno, per rendere un po’ meno comoda la poltrona dello spettatore (per rifarci a una citazione tratta dalle note di regia), la squadra avrebbe forse dovuto sviluppare più a fondo l’interessante idea iniziale, e non lasciarla in nuce; l’allestimento si rivela, comunque efficiente e piacevole.
Sul podio dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, eseguendo la partitura integralmente e adottando l’edizione critica a cura di Fabrizio Della Seta, Enrico Lombardi attua una sintesi tra filologia, fedeltà al dettato verdiano, e prassi esecutiva stratificatasi nel corso degli anni. Sin dalle prime note, Lombardi stacca con espressività tempi incalzanti e rapinosi, dando vita a una direzione tesa e incisiva, improntata a un suono pieno e lucente ma mai soverchiante rispetto al palcoscenico, in grado, all’occasione, di stemperarsi in soffici pennellate di consistenza serica. Un’interpretazione mai banale o scontata, personalissima e dinamica, contraddistinta da un certosino lavoro di studio e analisi, nonché da una tecnica ferrea e dalla ricerca di cadenze affascinanti e originali.
Complessivamente ben assemblato il cast. Nei panni della protagonista, Francesca Sassu delinea, nel I atto, una Violetta fredda e distaccata, negli altri atti nell’insieme più appassionata. Scenicamente convincente, la Sassu è in possesso di uno strumento vocale di buon peso, nell’insieme abbastanza omogeneo, asprigno e corposo nelle note alte. Tra i momenti migliori della serata, ricordiamo l’accorato confronto con papà Germont e l’aria “Addio, del passato”, resa con correttezza. Dopo il successo nel Werther del 2020 e nella Bohème del 2021, torna a Como il venticinquenne tenore Valerio Borgioni. Voce ampia e di seducente tinta brunita, ricca di armonici e salda nell’emissione, Borgioni si distingue per una linea di canto morbida, per un registro acuto squillante, per il fraseggiare dovizioso di accenti; il suo è un Alfredo giovanile e impacciato, credibile e naturale nella recitazione.
Più volte esibitosi sulle tavole lariane, Vincenzo Nizzardo tratteggia un Giorgio Germont austero, sprezzante e solido, cinico e impassibile, dalla vocalità voluminosa, facilmente espansa nella sala teatrale, pungente nel fraseggio ricco di inflessioni, e dal physique du rôle plastico e solenne. L’aria “Di Provenza il mare, il suol” è affrontata con espressività veemente, avara di sfumature.
Funzionali i comprimari, tra i quali rammentiamo il Dottor Grenvil musicale e dalla voce duttile di Nicola Ciancio, il puntuale e lascivo Barone Douphol di Alfonso Michele Ciulla, l’adeguata Flora di Reut Ventorero, il Gastone impetuoso di Giacomo Leone, il Marchese d’Obigny sonoro di Alessandro Abis, l’Annina puntuta di Sharon Zhai, perfettibile nella dizione. Vibranti e vigorosi gli interventi del Coro OperaLombardia, guidato come sempre con sicurezza da Massimo Fiocchi Malaspina.
Teatro esaurito e, al termine, calorosa accoglienza per tutti gli interpreti, con sentite manifestazioni di entusiasmo per Sassu, Borgioni, Nizzardo, Lombardi e Rotolo; un paio di dissensi per il regista. La produzione verrà proposta, nelle prossime settimane, a Brescia e Pavia, mentre a febbraio 2023 a Fano, Fermo e Ascoli Piceno.
STEFANO BALBIANI
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«La Traviata»: una tragedia in musica sul tema del pregiudizio. Questa la chiave di lettura del capolavoro verdiano fornita dal regista Luca Baracchini, artefice dell’innovativo allestimento in scena al teatro Grande domani alle 20 e domenica 18 alle 15.30 (pochissimi i posti rimasti liberi: rivolgersi direttamente alla Biglietteria del Teatro).
Baracchini, accanto alla scenografa Francesca Sgariboldi, al costumista Donato Didonna e al «light designer» Gianni Bertoli, fa parte del team creativo under 35 selezionato da Opera Lombardia mediante un concorso che ha visto la partecipazione di cinquanta progetti. Per questa produzione i soprani Francesca Sassu e Cristin Arsenova si alterneranno nel ruolo di Violetta, mentre la direzione musicale è affidata al maestro Enrico Lombardi. «Ci siamo accostati alla "Traviata" - premette il regista - come se si trattasse di un’opera nuova e abbiamo cercato di farlo con un occhio vergine».
Le fotografie dello spettacolo fanno pensare a un’ambientazione in chiave contemporanea: è così?
Il concetto di contemporaneità è fondamentale. Verdi voleva che la sua «Traviata» fosse ambientata nel presente, di conseguenza ciò che si vede in scena deve risultare contemporaneo rispetto al pubblico che assiste in sala. Perciò abbiamo pensato a una «Traviata» dei nostri giorni.
Qualcosa che ha senso oggi, mentre probabilmente non lo avrebbe avuto vent’anni fa, e forse non lo avrà fra dieci anni. In che modo lo spettacolo è ancorato proprio al 2022?
In realtà, a livello più profondo, lo spettacolo è ancorato all’essere umano. E qui tocchiamo il tema fondamentale del giudizio del mondo esterno sulla protagonista dell’opera. Un giudizio che, a tutti gli effetti, è un pregiudizio. Lo stesso Verdi, al tempo della sua convivenza con Giuseppina Strepponi, ne fece le spese. «La Traviata» ci parla di una morale borghese che pervade tutti i personaggi, alla fine includendo la stessa Violetta, incapace di accettare se stessa e la sua storia. Non si tratta di un dramma borghese: è una tragedia.
Non pensa che la musica di Verdi, scritta nella metà dell’Ottocento, possa entrare in conflitto con un’ambientazione nel XXI secolo?
Al contrario, è perfetta. E mi sono trovato in piena sintonia con l’interpretazione radicale del maestro Lombardi.
Si aspettava di vincere il concorso di Opera Lombardia?
Per il nostro gruppo, dopo aver partecipato a tanti bandi, è stata una grande soddisfazione. Credo che sia stato premiato il coraggio del progetto. Paragono il nostro lavoro a quello dei funamboli: si corrono dei rischi.
La stampa ha parlato di una Traviata «transgender»: come hanno risposto pubblico e critica?
Coprendo l’intera gamma delle reazioni, dalla disapprovazione al plauso convinto.
MARCO BIZZARINI
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Il giovane regista Luca Baracchini porta Violetta Valery nel mondo attuale mettendo al centro la sua scelta di genere.
«La traviata» di Giuseppe Verdi è una delle opere più rappresentate dell'intero repertorio lirico (chi non riconosce e spesso si ritrova a intonare arie come «Amami, Alfredo» o «Libiamo ne' lieti calici»?). Ed è questo è l'ultimo titolo della stagione d’opera e di balletto di quest’anno al Teatro Grande di Brescia, in scena questa sera alle 20. Per questa sua notorietà lo stesso direttore d'orchestra paragona le parti celebri del melodramma verdiano ai primi versi della Divina Commedia dantesca o all'incipit de I Promessi Sposi.
Su questo titolo così centrale dunque nella nostra cultura il regista Luca Baracchini ha deciso di realizzare un'operazione coraggiosa, con il suo team creativo. «Se c’è, in fondo, qualcosa di noto e rassicurante in quest’opera è perché, dopo centosettant’anni di gloriosa rappresentazione, la love-story complicata fra una prostituta e un giovane di buona famiglia è diventata un topos narrativo popolare, comune nella cultura di massa ben oltre la lirica». Il regista, intimamente convinto che la lunga frequentazione «ci abbia assuefatti a Traviata», ha deciso così di di rendere la poltrona «un po’ meno comoda». E dunque stasera il giovane Baracchini porta Violetta Valery nel mondo attuale rendendolo un personaggio transgender e mettendo al centro la sua scelta di genere. Fra i cinquanta progetti inoltrati per questo spettacolo il vincitore del concorso under 35 è stato quello presentato dal Team Duphol’s composto dallo stesso Luca Baracchini per la regia, Francesca Sgariboldi per le scene, Donato Didonna per i costumi e Gianni Bertoli per le luci.
Baracchini: «Esiste una colpa o solo un pregiudizio che siede in poltrona insieme a noi?»
Dal suo apparire il capolavoro verdiano, basato sul lavoro letterario di Alexandre Dumas Figlio, non ha mancato di far sollevare più d’un sopracciglio a quella «società perbene» che le prostitute le frequentava, eccome, ma per la quale vederne apparire una in palcoscenico, seppur nobilitata da una musica straordinaria, era davvero un po’ troppo. Ma ora la sfida è cambiata e Baracchini ha deciso di buttare metaforicamente dalla finestra dei bei palazzi tante volte rappresentati l'epilogo retorico «moralmente accomodante, in cui una sorta di Maddalena redenta ascende al cielo come una pudica vergine. Se Traviata è viva, oggi come centosettant’anni fa, chi vi assiste deve provare la contraddizione fra un pregiudizio che l’accompagna e un racconto che lo mette a nudo, davanti all’essere umano». Perché? Perché non c’è nella morte finale, secondo il giovane regista, nulla di edificante o romantico, «ma solo uno specchio crudele e desolante». Una tragedia dell’essere umano: «Violetta non muore rivendicando orgogliosamente la propria identità, ma incarnando quell’aspettativa sterile e ipocrita che le ha rovinato l’esistenza; si strugge ma non combatte, pare quasi alla ricerca di un meritato martirio che la riscatti dalla colpa».
E quindi chi firma l'allestimento lascia allo spettatore la decisione: esiste una colpa o esiste solamente un pregiudizio che siede in poltrona insieme a noi?
Francesca Sassu e Valerio Borgioni sono Violetta Valery e Giorgio Germont
«La traviata» è dunque una delle opere più rappresentata in tutto il mondo, forse la più eseguita in assoluto, e anche al Grande è tornata spesso, nonostante il numero limitato di titoli della stagione: manca da «soli» sei anni e per riandare alle più recenti edizioni basta risalire al 2010, al 2004 e al 1998, solo per fare qualche esempio. Per questo nuovo allestimento dei Teatri del Circuito Opera Lombardia è stato indetto appunto un concorso internazionale di regia per under35, in collaborazione con la Fondazione Rete Lirica delle Marche e Opera Europa. Il cast artistico è composto dal soprano Francesca Sassu che questa sera sarà Violetta Valery, mentre nella replica di domenica il ruolo sarà interpretato da Cristin Arsenova. Il tenore Valerio Borgioni vestirà i panni di Alfredo, mentre Giorgio Germont sarà interpretato da Vincenzo Nizzardo; l’amica di Violetta, Flora Bervoix, sarà interpretata da Reut Ventorero mentre nei panni di Annina e di Gastone saranno Sharon Zhai e Giacomo Leone. Alfonso Michele Ciulla interpreterà il Barone Douphol e Lodovico Filippo Ravizza il Marchese d’Obigny, Nicola Ciancio il Dottor Grenvil.
L'orchestra, il coro e le scelte del direttore d'orchestra
L’Orchestra dei Pomeriggi Musicali è diretta come detto in apertura da Enrico Lombardi, sulla scena il Coro Opera Lombardia preparato da Massimo Fiocchi Malaspina. Francesca Sassu è stata applaudita anche in altre edizioni dell’opera: nel 2020 era alla Fenice di Venezia diretta da Stefano Ranzani, regia di Robert Carsen, accanto a Stefano Secco come Alfredo e Armando Gabba come Giorgio Germont.
Sul piano prettamente musicale (e del libretto), il direttore si è chiesto che cos'hanno in comune le diverse forme d'arte, patrimonio di tutti noi, divenute classici riconoscibili. «A costo di dire una banalità (che, però, è essenziale), esse nascono da una chiara concezione dell'artista e arrivano a noi con un'architettura e una forma ben definite». Stupore e disorientamento ci coglierebbero se una parte della Monna Lisa o il Colosseo fossero sottoposti a qualche ritocco «con l'intenzione di migliorarla. Qualcuno, inoltre, potrebbe mai pensare di togliere qualche mattone di troppo dal Colosseo?» si chiede Lombardi. E La Traviata, cui spesso tocca la sorte di essere tagliata qua e là? «Mi sono chiesto come potrebbe risultare se eseguita in forma completa con tutti i mattoni al proprio posto. Forse varrebbe la pena illuminare davvero i numerosi dettagli, i piccoli preziosismi scritti – o se vogliamo, i colori – di questo grande quadro. E forse potremmo scoprire che, contrariamente a quanto si dice di solito, La Traviata non soltanto si sa, ma si può anche (ri)studiare».
La consueta replica pomeridiana di domenica 18 dicembre a differenza dei titoli precedenti vedrà un cambio di cast nella voce femminile principale.
SARA CENTENARI & LUIGI FERTONANI
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La scelta di mettere in scena Violetta nelle vesti di una transgender incapace di accettare la sua trasformazione fino in fondo non è per niente sciocca: il disagio individuale, quel doversi arrendere controvoglia a convenzioni non scelte è quanto mai attuale, e assolutamente autentico., Applausi fin dall’inizio, dal brindisi., Un allestimento gradito al pubblico bresciano, per nulla scandalizzato dalle scelte del regista., Quello che è mancato nell’idea di Luca Baracchini della Traviata verdiana andata in scena ieri sera a Teatro Grande è uno sviluppo coerente del tema di partenza, che rivela da subito l’alter ego di Violetta ancora imprigionato nella sua versione maschile e che si guarda allo specchio in mutande e pieno di vergogna., E che nel corso dell’opera diventerà il silenzioso compagno di Violetta in tutti i momenti cruciali della sua vicenda amorosa, fino al celebre finale dell’«Addio al passato», quando si denuderà e mimerà un’autocastrazione., Alla «doppia Violetta», quella cantata da Francesca Sassu e quella impersonata dal figurante Giovanni Rotolo, si contrappone l’Alfredo Germont di Valerio Borgioni che la regìa dipinge come un ragazzone inesperto e timido, sicuramente di ottima famiglia., Francesca Sgariboldi disegna nelle sue scene iniziali un vero e proprio night club, il «Douphol» con tubi e scritte al neon, tavolini e divani frequentati da una varia umanità fatta di prostitute e travestiti.
Viste la scelte iniziali non mancano durante la narrazione momenti particolarmente «forti», ma anche quelli estremamente poetici come quello dell’alter ego maschile di Violetta che scrive sullo specchio «Amati» mentre canta «Amami Alfredo»., Altri momenti sono, diciamolo, un po’ meno condivisibili come quello di Flora e Gastone che amoreggiano mentre Alfredo canta «Un dì, felice, eterea», oppure la scenetta sadomaso che arriva nel secondo atto., Tante cose da osservare e che fatalmente tolgono una parte dell’attenzione alla parte strettamente musicale: brava Francesca Sassu anche dal punto di vista scenico (splendidi i suoi costumi), ben costruito e vocalmente valido l’Alfredo di Valerio Borgioni, Vincenzo Nizzardo è il Giorgio Germont solido e austero che ci si può attendere, anche se a tratti un po’ eccessivo., Uno spettacolo tutto sommato piacevole, grazie alla conduzione competente di Enrico Lombardi, a un coro come si deve e alla resa molto accurata di tutti i comprimari, a partire dalla Flora di Reut Venrorero., Domani pomeriggio si replica con Cristin Arsenova nel ruolo di Violetta.
LUIGI FERTONANI
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successo al Teatro Grande per l’opera di Verdi riadattata al presente con l’allestimento firmato dal regista Luca Baracchini.
Tanto tuonò che… non piovve. Preceduta dalla fama di essere una sorta di attentato alla drammaturgia di Giuseppe Verdi, «La traviata» nel nuovo allestimento firmato dal regista Luca Baracchini ha raccolto un caloroso successo al Teatro Grande di Brescia (si replica domenica 18 dicembre alle 15,30).
Qualche timido dissenso si è colto dal pubblico proprio quando il giovane regista si è affacciato sulla scena, al termine dello spettacolo. Ma non si sono verificate le temute contestazioni che, peraltro, pare si siano levate solo alla prima assoluta di Cremona e non alle repliche di Como (lo spettacolo, vincitore di un concorso per registi under 35, è parte del circuito Opera Lombardia). Donde tanta preoccupazione? Per la scelta di Baracchini di raccontare la protagonista come un trans. Scelta sicuramente forte, che si è concretizzata sul palco con la presenza — in alcuni momenti importanti della vicenda — di un mimo in mutande (che a un certo punto scivolano anche via…), alter ego maschile di Violetta. Che, lo ricordiamo, nella realtà (perché di storia vera si tratta) era una prostituta d’alto bordo. Come tale la narrano Alexander Dumas prima («La signora delle camelie») e Verdi poi.
Una storia potente di amore e redenzione, ma anche un duro atto di accusa nei confronti di una società — quella parigina degli anni Quaranta dell’Ottocento — ipocrita e fintamente perbenista, soprattutto nei confronti delle donne. Dunque, l’idea di Baracchini di attualizzare la scandalosa vicenda creando questa nuova identità per Violetta non è affatto peregrina. Peccato che la sua realizzazione non sia così convincente, anzitutto perché non è chiaro che il mimo è la Violetta maschio, ma soprattutto perché il regista non si spinge sino in fondo su questa strada, limitandosi a suggerire. Il momento chiave della regia, oggettivamente emozionante, lo si tocca quando, sulle note struggenti dell’«Amami Alfredo», il mimo scrive su un grande specchio la parola «Amati».
Il tema, si capisce, è quello universale dell’accettazione di sé che, per una persona transgender, assume una connotazione ancora più pregnante. Per il resto, la regia non presenta «segni particolari», muovendosi sulla strada di una quieta tradizione. Anche quando, nella scena della festa in casa di Flora, al posto del balletto di zingarelle e mattadori, compaiono alcuni mimi in versione fetish. Le scene di Francesco Sgariboldi collocano la vicenda in una contemporaneità pulita, lineare, un tantino asettica, vivacizzata dal light design di Gianni Bertoli; sulla stessa linea i costumi di Donato Didonna.
Sul fronte musicale, il direttore Enrico Lombardi opta per la versione più integrale possibile, con tanto di variazioni nelle cabalette. La sua lettura è nervosa, scattante, improntata a una asciuttezza espressiva che carica ulteriormente di tensione il racconto, con una apprezzabile attenzione al canto e una adeguata valorizzazione dello strumentale. Francesca Sassu è una Violetta in crescendo: in lieve difficoltà nel virtuosismo e nella leggerezza del primo atto, guadagna in pathos nel secondo, giungendo a un terzo atto di grande intensità emotiva. Molto bene ha fatto Valerio Borgioni nei panni di un Alfredo appassionato ed estroverso, con il suo bel timbro schiettamente tenorile. Vincenzo Nizzardo è un Germont padre di buona pasta vocale ma poco sfumato nel canto. Dei comprimari, segnaliamo l’ottimo Alessandro Abis (marchese d’Obigny). Pregevole la prestazione del coro, istruito da Massimo Fiocchi Malaspina.
FABIO LAROVERE
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Per "La traviata" dei teatri lombardi un regista e un direttore giovani e interessanti.
Approdata al Grande di Brescia dopo una prima tumultuosa al Ponchielli di Cremona, questa Traviata transgender non risulta affatto scandalosa come le reazioni al debutto facevano temere, o magari promettevano. Semmai, è la conferma che perfino in Italia ci sono degli artisti giovani con delle idee, cui va solo data la possibilità di realizzarle. Lo spettacolo del regista Luca Baracchini, con le scene di Francesca Sgariboldi, i costumi di Donato Didonna e le luci di Gianni Bertoli, è il vincitore di un concorso per under 35 indetto da OperaLombardia. Che poi a 35 anni si possa essere considerati ancora “giovani” potrebbe indurre ad amare riflessioni sulla gerontocrazia italiana.
Dunque, Violetta trans. L’idea non è nuovissima: anni fa, se ne era vagheggiata una a Bologna di cui avrebbe dovuto essere protagonista un soprano che non t’aspetti, molto amato dai tradizionalisti e che invece era entusiasta del progetto che poi non si fece per impicci contingenti. L’idea non è nemmeno sbagliata. Si tratta di rendere in termini contemporanei la radicale alterità di Violetta rispetto all’ordine e alla morale borghese. I tempi sono certi cambiati e le mentalità evolute, ma sicuramente anche oggi per molti papà Germont una nuora trans sarebbe difficile da accettare. Baracchini rende l’idea facendo doppiare la sua Violetta, Francesca Sassu, da un attore in mutande, che rappresenta l’alter ego maschile di lei. Molti momenti sono assai belli, specie quando lo smutandato scrive a grandi lettere rosse “Amati” su uno specchio mentre Violetta canta “Amami Alfredo”. Però l’effetto è quello di narrazioni che si sovrappongono senza incontrarsi, come se l’opera parlasse di due argomenti diversi: l’auto accettazione di Violetta da una parte e dall’altra l’impossibilità della società di accettare che una prostituta si redima tramite un amore vero (l’opera, ricordiamolo, al netto delle implicazioni autobiografiche, è forse la più “politica” scritta da Verdi. E anche la più cristiana). Per il resto, una Traviata tutto sommato tradizionale, ovviamente in abiti contemporanei perché nulla è più anti verdiano delle crinoline, e dove la festa chez Flora del secondo atto, che al debutto aveva suscitato polemiche non si sa se più ridicole o provinciali, ma probabilmente tutte e due insieme, risulta tutt’altro che trasgressiva: un po’ di fetish ormai è sdoganato perfino nelle prime serate tivù sulle reti più democristiane, suvvia. Baracchini dimostra di avere delle idee e anche la tecnica per realizzarle. La sua Traviata non è completamente riuscita, ma alla mia quarantatreesima recita di un titolo abusato che necessiterebbe di una moratoria, preferisco di gran lunga uno spettacolo non del tutto risolto ma stimolante alle solite banalità ammannite anche in teatri ben più blasonati.
Il rischio è che la chiacchiera che ha accompagnato la regia distolga l’attenzione dall’altro giovine della partita, il direttore Enrico Lombardi. Il quale parte da una scelta che dovrebbe essere ovvia e invece è insolita: eseguire tutto quello che ha scritto Verdi, cadenze, seconde strofe delle arie, daccapo delle cabalette e così via. Credo che sia la prima volta che ascolto le ultime battute dell’opera, dopo che Violetta è passata a miglior vita, compresa “È spenta!” del Dottore (è la vittoria postuma di Alberto Sordi, memorabile Grenvil “filologico” in Mi permette babbo!). Non solo: poiché Lombardi sa che l’opera italiana dell’Ottocento va eseguita tutta, ma non com’è scritta, ci sono variazioni in ogni ripetizione, e stilisticamente ineccepibili. E tuttavia la direzione non si fa apprezzare solo per le sue scelte testuali: bastava ascoltare i secchissimi, drammatici pizzicati che accompagnano la resa di Violetta all’orrendo Germont senior (“Imponete!”) o il ritmo, molto toscaniniano, della scena della festa, ovviamente senza gli “allargando” abusivi che tutte le primedonne si concedono nei loro “a parte”. Manca, semmai, ma arriverà, la capacità di legare i vari numeri musicali, cui Verdi molto si dedicò, in una lettura d’impianto così belcantista da procedere un po’ “a blocchi”. In ogni caso, una direzione molto interessante: per Traviata, più l’eccezione che la regola. I Pomeriggi musicali si disimpegnano assai bene e il Coro di OperaLombardia, istruito da Massimo Fiocchi Malaspina, è compatto e preciso (comprimari, invece, non esaltanti).
Sassu è molto brava in scena, ma forse non abbastanza esuberante e/o nevrotica nel primo atto, concluso da un mi bemolle un po’ tirato. Ma nel secondo cresce e nel terzo è notevolissima, con un “Addio del passato” cesellato e, a dimostrazione della sensibilità dell’interprete, una bellissima lettura della lettera, il che è insolito. Il suo Alfredo, Valerio Borgioni, ha una bellissima voce e anche una certa eleganza nel porgere, ma per ora un fraseggio un po’ banale. Al netto di un clamoroso attacco sbagliato nel secondo quadro del secondo atto, un tenore promettente. Suo padre, Vincenzo Nizzardo, è un baritono roccioso con un’emissione da affinare e alleggerire. Successo assai cordiale, qualche lieve perplessità, più che contestazione, all’uscita del regista. La vera imperdonabile pecca dello spettacolo sono i tre (tre!) intervalli, come se ci fossero da smontare chissà quali scene zeffirelliane. Se c’è una cosa che la contemporaneità operistica ha capito, è che gli intervalli sono il male assoluto e vanno ridotti al minimo se non eliminati (vuol dire che farete pipì prima…).
ALBERTO MATTIOLI
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Francesco Maria Piave resumió la eterna dualidad de placer-culpa, bueno-malo, dañino-sano en la inmortal frase “Croce e delizia”, perteneciente al dueto «Un dì felice, etérea». Esta misma frase puede resumir perfectamente la nueva producción de La Traviata producida por el circuito OperaLombardia. De entrada, una sugestión rondaba la platea del hermoso Teatro Grande de la ciudad de Brescia cuando una señora de avanzada edad se movía con dificultad rumbo a su asiento mientras sentenciaba a su acompañante con una frase que heló a quienes lo escuchamos: “Esta producción es una basura, es ofensiva. Quién sabe que nos espera”.
La premisa era justificada, pues es por demás sabido que el norte de Italia es colosalmente conservador y esta innovadora propuesta fue demasiado audaz para el pueblo italiano. Aun sabiendo eso, el TEAM DUPHOL, equipo ganador del concurso internacional para directores menores de 35 años cuyo premio consistía en la puesta en escena de su propuesta, expuso a una Violetta transexual en un ambiente con recurrentes tintes sexuales. Erróneo el juicio de la señora, pues la impecablemente justificada idea de ‘los Duphol’ ha sido de lo mejor que se ha visto en años en esta región italiana, tanto que fue la elegida entre más de 50 proyectos provenientes de toda Europa. Evidentemente buscaban evitar una enésima versión del tercer título de la popular trilogía de Giuseppe Verdi, meta que consiguieron loablemente.
La regia firmada por el joven pero experimentado Luca Baracchini, sustituía el pasado de Violetta, quien trataba de ocultar no una vida precedente como cortesana si no un pasado como hombre. Durante el Preludio y frente a un espejo, una joven con falda y blusa se va lentamente quitando las prendas mientras crece su tristeza evidenciando que es en realidad un hombre. Tras quedar semidesnudo solo con una estrecha trusa blanca, con un juego de escena que adelanta el tiempo, el chico/chica aparece con su nueva identidad perfectamente definida: Violetta Valéry. Antes de terminar el célebre fragmento musical, desde la platea un barullo general anunciaba que la idea no estaba gustando.
El rol de ‘Violetta hombre’ fue magistralmente interpretado por el actor Giovanni Rotolo, quien fue injustamente abucheado por una irrespetuosa anciana quien con todas sus fuerzas durante el aria Teneste la promessa gritó: “¡Vergüenza!” solo porque Rotolo deambulaba cerca de la soprano escenificando lo que era un momento introspectivo entre la mujer actual y su pasado como hombre. En el momento clímax del aria, el personaje de Rotolo se mira al espejo mientras baja la trusa para ver sus genitales y mostrar el dolor interno que le representa el recordar su identidad genética. La íntima idea fue nuevamente arruinada por la misma octogenaria quien volvió a interrumpir la música gritando “¡Vete del escenario! Es vergonzoso”; la escena se convirtió en una kermés de pueblo cuando desde los palcos la gente le respondía a la señora “¡Váyase usted!”, “¡Cállese!” e incluso no faltó un “¡Viva Verdi!” obligando al director a detener un momento la música, voltear hacia el público y exigir un poco de respeto a la partitura. Por fortuna, ninguno de los adultos mayores presentes en el teatro entendió lo que sucedía en los coros de las zingarelle y los mattadori. Las gitanas eran travestis barbados en vestidos negros quienes seducían a los hombres del coro, mientras para el número de los matadores salió un aparente toro, que no era otra cosa que un hombre en máscara de látex, cierres en todos los orificios y un candado en la boca que evidentemente tiene una connotación sexual, obviado aún más por los latigazos que recibía de las gitanas excitadas. La arriesgada propuesta de Baracchini fue sustentada por el perspicaz diseño del resto del team; la elegante escenografía de Francesca Sgariboldi, la sutil iluminación de Gianni Bertoli y los atrevidos vestuarios de Donato Didonna.
La parte creativa fue la “delizia” del espectáculo -retomando la metáfora del dueto-, mientras la parte musical fue definitivamente la “croce”. En el foso, la Orchestra I Pomeriggi Musicali fue dirigida por Enrico Lombardi. La agrupación tuvo algunos detalles de poca coordinación y sobre todo problemas de afinación; nada tremendamente dañino, pero tampoco de pasar por alto visto que se trata de una agrupación conformada por músicos profesionales. Por su parte, la interpretación de Lombardi fue por momentos sucia y completamente fuera de estilo. Permitió (o sugirió) que todos los cantantes hicieran variaciones durante las arias, mientras las cadencias estuvieron plagadas de ornamentaciones típicas del clasicismo (en particular de gruppetti), muy lejano de lo que la partitura verdiana exige. Los tempi de Lombardi fueron ofensivamente veloces en momentos donde los cantantes además de necesitar respirar, necesitan interpretar y sentir el personaje. La batuta del concertador marcaba rápido y a tempo pasajes que deben ser con espressione y col canto por la intensidad histriónica. Vale mencionar también que las partes corales y los finales fueron a su vez decorosos y certeros.
El rol protagónico de Violetta fue interpretado decorosamente por Cristin Arsenova. La soprano veronesa de tan solo 27 años es poseedora de una voz ágil, potente y educada. Su voz tiene un registro central y agudo íntegro, aunque por desgracia los sobreagudos estuvieron calados; en la parte actoral fue cumplidora y convincente. Debe mencionarse que se ejecutó la versión sin los cortes tradicionales, por ende Arsenova interpretó las dos letras tanto en «È strano! È strano!» como en «Addio del passato bei sogni ridenti» haciendo que el interpretar el rol haya sido un tour de force. El voluble enamorado Alfredo fue encarnado por Valerio Borgioni correctamente. La voz del tenor romano es fresca y mórbida, una combinación idónea para el rol; aunque la juventud de Borgioni de 26 años lo traicionó al final de la función al llegar notablemente cansado. A pesar de no haber ejecutado los sobreagudos que por tradición se hacen (sobre todo al final de «O mio rimorso!») su actuación e interpretación fueron notables. Mientras el Giorgio Germont de Vincenzo Nizzardo fue potente y siempre presente, con agudos engolados pero siempre resonantes y dicción inmaculada. «La traviata» transgénero Brescia
Igualmente efectivos fueron las voces graves del barítono Alfonso Michele Ciulla como el Barone Douphol y del bajo Alessandro Abis como el Marchese d’Obigny; ambos muy entrados en personaje y poderosamente convincentes. Hicieron que aunque sean personajes cortos, y también gracias a la propuesta escénica de Baracchini, no pasaran desapercibidos y fueran muy aplaudidos. Certero y entregado el Gastone del tenor Giacomo Leone, mientras el Dottor Grenvil de Nicola Ciancio de voz pequeña fue escénicamente decoroso. Por su parte el Coro Opera Lombardia dirigido por Massimo Fiocchi Malaspina ejecutó con bravura las partes corales, dando siempre atención a las dinámicas y a las instrucciones escénicas.
Una propuesta atrevida y audaz que debiera ver la luz en escenarios más importantes o internacionales, así como con un público más abierto pues una idea innovadora presentada a un pueblo cerrado está destinada a no trascender. De propuestas “locas” o “no tradicionales” de Traviata hay tantas como peces en el mar, pero tan bien sustentadas y propositivas como ésta, pocas. «La traviata» transgénero Brescia
BERNARDO GAITÁN
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L'opera per le scuole si è tenuta senza attori, Calcinaro: «Voglio capire perché quest'opera sia stata proposta alle scuole»
Si sono bloccati ad un passo dal via. Hanno detto un «no» preventivo allo spettacolo (senza vederlo) e hanno chiesto che nell’anteprima dedicata agli studenti fosse presentato solo in forma di concerto, senza attori insomma.
Il sindaco: «Arrabbiato, non ne sapevamo nulla»
La questione del contendere è una Traviata verdiana rivisitata, con «Violetta», che nella versione co-prodotta con OperaLombardia e firmata dal regista Luca Baracchini è una donna transgenere. Il punto però non sta nelle letture più o meno entusiastiche della resa scenica, ma in uno stop che è arrivato dai comuni di Fermo e Ascoli Piceno che, vista la peculiarità dello spettacolo hanno optato per una versione «light» per i ragazzi. «Ho saputo solo dopo che era stata rivisitata in questo modo, lo abbiamo saputo dopo il debutto a Como - dice Paolo Calcinaro Sindaco di Fermo - ho deciso quindi che avremmo assistito con le scuole ad un’anteprima senza attori. Mi sono arrabbiato con la rete lirica, non ho capito come si sia potuto proporre uno spettacolo vietato ai minori di sedici anni nell’ambito di una rassegna scolastica».
«Noi censurati, siamo avviliti»
Lo spettacolo però in realtà non ha alcun limite di età, almeno sulla carta. «Sì, intendevo una questione di opportunità - chiarisce Calcinaro - ci sono anche studenti delle medie che vengono a vederlo, mi sembrava un po’ troppo. Ci siamo chiesti come risolvere la cosa e abbiamo trovato questa soluzione». L’inquietudine, insomma, per quella Violetta-Valery transgenere non avrebbe lasciato dubbi ai due amministratori comunali di Fermo e Ascoli che hanno opposto un no netto. «Chiamiamo le cose con il loro nome: due comuni hanno censurato le recite - dice Luca Baracchini il regista - nessuno si è confrontato con me, nessuno mi ha chiesto informazioni. Hanno letto qualche titolo di giornale e tanto è bastato. L’informazione ci è arrivata dall’oggi al domani e non in modo ufficiale. La cosa avvilente è che ci si è fatto scudo dei ragazzi per attuare una censura su una cosa che turba più i censori che altro e che non si basa su un confronto. Chi ha proibito questo allestimento non l’ha visto in scena. Questo avvalora ancora di più lo spettacolo, visto che parla del pregiudizio. Quello che sta succedendo è oggetto del nostro spettacolo: il pregiudizio nei confronti di ciò che è “deviato” dalla normalità».
Il regista: «C'è poesia in ogni scena»
Lo spettacolo di Baracchini ha vinto un concorso indetto da Opera Lombardia, in cui la Rete lirica fa parte della giuria. La vittoria risale alla primavera dello scorso anno e per tutto dicembre lo spettacolo è andato in scena nei teatri della Lombardia. «Ancora una volta, anche vista questa querelle vi si può leggere la contemporaneità di Verdi - dice Baracchini - nella traviata racconta la storia del pregiudizio, dell’etichetta, racconta cosa c’è dietro questo pregiudizio questa etichetta. Abbiamo trattato Violetta con un occhio tragico e delicato, c’è poesia in ogni scena. Il nostro obiettivo? Far sedere le persone con un possibile pregiudizio e farla alzare avendo fatto esperienza di questo percorso di vita, di questo esser umano. Non si può “non fare amicizia” con violetta. Violetta è “un personaggio sbagliato” che parla di noi ogni volta che ci guardiamo allo specchio e non ci sentiamo adeguati rispetto alle richieste del mondo. E questo, soprattutto per i ragazzi è un sentire comune».
ALICE D'ESTE
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Violetta transgender non è andata giù alle amministrazioni di Ascoli e Fermo, solo in forma di concerto l’anteprima per le scuole. Eppure l’allestimento di Baracchini era stato presentato nel giugno scorso ed era già andato in scena in diversi teatri della Lombardia
Prostituta si, transgender no. E’ questo il limite tracciato dall’amministrazione comunale di Ascoli (e da quella di Fermo) che ha portato alla clamorosa, ma purtroppo non troppo sorprendente, decisione di far scattare la censura nei confronti de “La Traviata” almeno per quanto riguarda le scuole. Non c’è niente da fare, si può discutere e sbraitare quanto si vuole, si può provare a ribellarsi con orgoglio a quelli che, ironia della sorte, vengono considerati inaccettabili pregiudizi, ma poi prima o poi arriva sempre qualche circostanza che dimostra come in effetti il sud delle Marche purtroppo è culturalmente arretrato rispetto al resto della regione. Perché a Fano la stessa opera viene tranquillamente rappresentata, in versione integrale e senza alcun tipo di censura, anche per le scuole.
Per altro bisogna riconoscere all’amministrazione comunale di Ascoli che, da quando è stata bocciata nel marzo scorso, non perde occasione per dimostrare quanto sia stato corretto non nominarla Capitale Italiana della Cultura 2024. Una brutta pagina che non fa certo onore ad una città che, pure, ha una lunga tradizione in fatto di passione per la lirica e che oltretutto dimostra tutti i limiti e le inefficienze di questa amministrazione. Come forse ormai è noto, in questi giorni è in programma nelle Marche l’appuntamento sicuramente più atteso della stagione lirica della Rete lirica delle Marche, “La Traviata” nell’allestimento del regista Luca Baracchini in scena il 4 febbraio al Teatro della Fortuna di Fano, l’11 febbraio al Teatro dell’Aquila di Fermo e il 18 febbraio al Teatro Ventidio Basso di Ascoli.
Come sempre in tutti e tre i comuni è anche in programma l’anteprima dedicata alle scuole, a Fano il 2 febbraio, a Fermo il 9 febbraio e ad Ascoli il 16 febbraio. Il problema è nato nei giorni scorsi quando il Comune di Ascoli ha scoperto che nell’allestimento di Barracchini Violetta è transgender. Apriti cielo, mentre a Fano questa “scoperta” (che in realtà scoperta non è perché era cosa ampiamente nota) come è normale che sia non ha creato alcun tipo di problema, nel “bigotto” capoluogo piceno (così come a Fermo) la cosa ha creato scompiglio e provocato l’immediata (si fa per dire) reazione dell’amministrazione comunale.
Così alla fine è arrivata la decisione di “censurare” l’anteprima per le scuole (alcune delle quali avevano già preso il biglietto), stabilendo che ai ragazzi sarà consentito di assistere alla versione solo in forma di concerto per gli under 30. Da quanto riportano gli organi di informazione locale a deciderlo alla fine è stato il CdA della Fondazione Lirica “dopo le proteste degli amministratori comunali quando hanno saputo che in questo allestimento Violetta era una transgender e poteva creare disorientamento negli spettatori più giovani”. Sarebbero tante, troppe, le cose da dire, gli aspetti da sottolineare.
Ci limitiamo ad evidenziare innanzitutto come chi parla di “possibile disorientamento negli spettatori più giovani” per la presenza di una transgender evidentemente non conosce e non ha la minima contezza del mondo dei giovani di oggi, fortunatamente enormemente più aperto e inclusivo di quello gretto e pieno di pregiudizi in cui vivono (e vorrebbero far vivere anche loro) quelli che si sono scandalizzati. E, pur sapendo che “a lavare la testa ai somari si perde tempo, acqua e sapone”, non possiamo non sottolineare come la cultura, ogni forma ed espressione di arte dovrebbero essere straordinariamente inclusive, dovrebbero contribuire ad aprire la mente, ad allargare gli orizzonti. E, poi, basterebbe pensare che nel 1853 il capolavoro verdiano aveva in se una forza trasgressiva enorme, con la tormentata storia d’amore tra la prostituta Violetta il giovane di buona famiglia Alfredo che all’epoca rappresentava un vero e proprio scandalo.
Chissà, se all’epoca ci fossero stati simili amministratori bacchettoni magari non avremmo mai potuto godere della straordinaria opera di Verdi. Purtroppo non è la prima volta che accade qualcosa di simile nel capoluogo piceno, nel 2018 accadde qualcosa di simile per “Così fan tutte” di Mozart, con tre scuole che si rifiutarono di accompagnare i ragazzi alla rappresentazione perché ritenuta troppo scabrosa (non era ritenuta tale nel 1790…).
Ora questa censura preventiva davvero del tutto inopportuna e incomprensibile, anche perché, non essendo certo obbligatorio per i ragazzi assistere all’opera, si poteva e si doveva lasciare libera scelta ai ragazzi stessi (e semmai ai loro genitori) di decidere. Ovviamente informandoli correttamente e tempestivamente di come fosse l’allestimento di Baracchini. Ed è proprio a quel tempestivamente che si appiglia l’amministrazione comunale, non comprendendo che invece in questo modo raddoppia la figuraccia. Perché non regge in alcun modo la giustificazione che solo negli ultimi giorni l’amministrazione comunale avrebbe scoperto il presunto “misfatto” (cioè la Violetta transgender).
Non regge perché se davvero così fosse sarebbe oltremodo sconcertante che il Comune, il sindaco e, ancor più, l’assessore alla cultura neppure conoscono ciò che presentano al pubblico ascolano. Nel caso in questione, poi, gli amministratori ascolani non potevano non sapere (e se davvero non sapevano dovrebbero avere almeno la decenza di farsi da parte, di dedicarsi a qualcos’altro). Perché la stagione lirica della Fondazione lirica delle Marche, con le date anche del Ventidio Basso, è stata presentata a giugno.
E in una delle note di presentazione si legge che “il team creativo vincitore del concorso che ha visto oltre 60 candidature, ha pensato ad una tragedia dell’intimità che ha al centro una protagonista incapace, lei per prima, di accettare se stessa e la sua storia. Nel passato di Violetta c’è una scelta di genere, un atto di auto-determinazione che ha portato con sé anche il senso di colpa per la propria doppia natura, interiorizzazione del giudizio esterno e della sua paura. La vittima arriva a comprendere e infine condividere il pregiudizio che l’accompagna: in quanto transessuale, splendida e persa “in un popoloso deserto”, non c’è che il sesso e il suo mercato. Alla complessità psicologica della protagonista si contrappone la superficiale inesperienza di Alfredo, un giovane benestante e senza pensieri. Questa coppia così stranamente assortita si muove in un mondo conformista e anonimo, ben più interessato alla bizzarria della vicenda che alla reale sorte dei diretti interessati”.
Più chiaro di così… Sarebbe già sufficiente così, ma c’è dell’altro. “La Traviata” di Barracchini era stata già messa in scena lo scorso anno nel circuito “Opera Lombardia” che comprende i teatri di Brescia, Como, Pavia e Cremona. Non stiamo quindi parlando di un nuovo allestimento, di una sorpresa dell’ultima ora, quindi il minimo sindacale che si debba pretendere da chi si occupa di cultura è di conoscere ciò che poi viene proposto al pubblico ascolano. Per altro in questo caso bastava prestare un briciolo di attenzione perché la cronaca dei mesi scorsi ha ampiamente parlato delle reazioni forti che ha provocato questo allestimento de “La Traviata”. Che, ad esempio, mentre a Como ha riscosso un grandissimo gradimento, con applausi scroscianti da parte del pubblico, a Cremona ha invece ha provocato sentimenti contrastanti, tra applausi convinti e fischi e “buu” di dissenso.
E se comunque si può comprendere il dissenso di chi è legato all’opera tradizionale, e quindi non gradisce questa ardimentosa rivisitazione, non si può invece tollerare la censura preventiva attuata da amministrazioni che sono ferme a secoli fa…
FRANCESCO DI SILVESTRE
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Censurare La traviata? Nel 2023? Può succedere, almeno per le amministrazioni comunali di Fermo e Ascoli Piceno, che hanno bloccato le rappresentazioni sceniche per le scuole e i giovani under 30 (quindi non solo impuberi minorenni!) della coproduzione fra OperaLombardia e la Rete Lirica Marchigiana, regia di Luca Baracchini: gli studenti delle due città vedranno l'opera in forma di concerto, mentre a Fano, per fortuna, andrà in scena regolarmente anche per i ragazzi. Il motivo? In questo spettacolo, ambientato ai giorni nostri, Violetta è transgender (la sua parte maschile è incarnata dal bravissimo attore Giovanni Rotolo) e vive una lacerazione interiore, oltre allo stigma sociale che alimenta l'opposizione di Germont al suo amore.
A centosettant'anni dalla prima assoluta è un bene che l'opera di Verdi continui a scuotere, turbare e anche disturbare come l'autore voleva. Lui non ha scritto la triste storia di un amore contrastato fra una fanciulla malata e un giovanotto di buona famiglia: ha scritto la disperata tragedia di una prostituta d'alto bordo che scopre il vero amore ma non può viverlo perché condannata dalla società, dai suoi pregiudizi e da un morbo da cui non può cercare scampo. Se si edulcora La traviata, se la si addomestica, si tradisce Verdi.
A centosettant'anni dalla prima assoluta non si può accettare che si censuri La traviata. Fin dalla prima assoluta, in realtà, è stata censurata. Per prudenza, là dove si trattava un tema d'attualità con continui, prosaici, riferimenti al denaro, contratti e mercimonii, già il libretto utilizza un linguaggio più aulico del consueto; poi, si sa, inizialmente gli allestimenti erano anticipati ai tempi del Cardinale Richelieu, per distanziare la vicenda dalla realtà che rappresentava. Poi si è preso a usare costumi contemporanei alla composizione (1853/54), soprattutto quando questi sono diventati costumi d'epoca e quindi si poteva ancora far finta che la vicenda di Violetta fosse cosa del passato, che non ci riguarda, e su cui possiamo commuoverci con buoni sentimenti e senza scandali. Il fatto che un'amministrazione comunale preveda prima delle recite per le scuole (superiori) della Traviata e poi si tiri indietro affermando di non sapere di cosa si sarebbe trattato, come è successo ad Ascoli e Fermo, imponendo esecuzioni in forma di concerto per i ragazzi vuol dire, prima ancora della censura a quello specifico allestimento, di non avere idea di cosa tratti l'opera di Verdi. Un ragazzo che è in grado di capire La traviata, è perfettamente in grado di confrontarsi con uno spettacolo in cui si affronta il tema dell'identità di genere. Altrimenti, ci sono tanti bellissimi spettacoli pensati appositamente per un pubblico infantile con il quale tutto ciò che è sessualità (o violenza, o altri temi ritenuti più adulti) viene evitato o trattato con debite attenzioni. Pensare che la storia di una prostituta vittima di una società ipocrita e bigotta possa andar bene camuffata in bei costumi da gran ballo romantico, ma che i giovani debbano essere "protetti" da ogni rappresentazione di una sessualità "irregolare" significa essere ipocriti, bigotti e anche un po' ignoranti. Significa offendere Verdi e la sua volontà di non essere né comodo, né rassicurante nel ritrarre l'umanità, significa offendere i ragazzi, la loro curiosità, la loro intelligenza, la loro legittima consapevolezza del mondo che li circonda e di cui fanno parte.
Portare i ragazzi a teatro significa condurli all'esercizio dello spirito critico, del confronto. Censurare a priori uno spettacolo significa anestetizzare se non addirittura negare e contraddire il ruolo dell'arte e della scuola. Nel momento in cui si ritiene che una classe possa assistere a uno spettacolo della stagione principale e non alle produzioni dedicate ai più piccoli, ci si deve poter confrontare con essa. Censurare significa nascondere, temere, creare un problema là dove la libera comprensione e la riflessione lo sciolgono. Negare lo spettacolo significa alimentare una visione morbosa del proibito, invece di invitare a ragionare e maturare. Farlo non solo con i minori, ma con il pubblico che usufruisce delle offerte per la recita riservata agli under 30 (uomini e donne giovani ma adulti!) oltrepassa il ridicolo. Viceversa, assistere allo spettacolo non comporta necessariamente il suo apprezzamento, la sua accettazione, ma lo sforzo di sviluppare la propria idea, di essere pensatori attivi e non fruitori passivi di ciò che dall'alto è concesso vedere. Questa Traviata può essere vista e valutata a diversi livelli: si potrà accogliere l'assunto iniziale, ma vi sarà anche chi rifiuterà dal principio la rappresentazione di tematiche legate al genere, all'identità, all'orientamento sessuale; ci sarà chi, invece, guarderà alla chiave di lettura in maniera aperta e potrà apprezzare o meno i vari aspetti della realizzazione. In ogni caso si porrà di fronte allo spettacolo mettendolo e mettendosi in discussione; a maggior ragione nelle dinamiche di un'esperienza scolastica, con compagni e professori, può essere occasione di dibattito anche animato e costruttivo. A Brescia ho avuto delle perplessità su questa produzione, non mi allineo certo con i detrattori a prescindere (anzi, trovo l'idea di base interessantissima), ma nemmeno con chi è rimasto del tutto entusiasta [la mia recensione]: proprio per questo sostengo la necessità di non censurare questo spettacolo. Io l'ho visto, ne ho discusso, mi sono interrogata, ho pensato. Vorrei che anche altri possano farlo, a maggior ragione ragazzi. Noi non andiamo a teatro, noi non ci accostiamo all'arte per avere conferme ed essere lusingati nelle nostre abitudini e convinzioni. Possiamo anche condannare, criticare aspramente, ma dobbiamo essere liberi di poterlo fare, di poter valutare.
Imporre La traviata in forma di concerto per i giovane e le scuole è offendere Verdi, gli artisti, l'intelligenza e la dignità del pubblico, che deve essere messo nella condizione di maturare un pensiero in autonomia e nel confronto con gli altri. Negare una recita under 30 che sia una vera e propria recita è un insulto alle nuove generazioni che si dovrebbero avvicinare, non allontanare dal teatro con penosi moralismi.
ROBERTA PEDROTTI
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La signora delle Camelie, diventata Traviata si risveglia trans. Evoluzione dei tempi. E come in ogni tempo, l’arte trova i suoi rivali. C’è sempre del puritanesimo camuffato in senso civico che spunta fuori da dentro le stanze del potere che prede decisioni.
È successo allora, quando Dumas con le sue pagine ficcanti criticava con un violento sorriso la borghesia. È successo con Verdi e le sue note che hanno accompagnato la travolgente storia di Violetta. Accade oggi con il giovane e premiato regista Luca Baracchini che sul palco non ha portato una prostituta, o cortigiana come si usava dire, alla ricerca dell’accettazione e del riscatto poi, ma una transgender alla ricerca dell’accettazione del proprio corpo.
La questione, locale, è che a Fermo e ad Ascoli Piceno la Traviata di Baracchini è stata vietata agli studenti. O meglio, non verrà rappresentata di fronte alle scolaresche, come accade invece da anni per ogni appuntamento organizzato dalla fondazione Rete Lirica delle Marche. Il tema trattato è stato ritenuto non adatto alla popolazione studentesca. E questo nonostante la Fondazione abbia per tempo coinvolto dirigenti e, ovviamente, i Comuni che sono soci, Fermo e Ascoli in primis.
Oltre a Fano, dove non ci sono stati problemi e dove Violetta racconterà sul palco ai ragazzi la sua esistenza di genere, proprio per il benvolere dei dirigenti scolastici che insieme con i professori a scuola ne hanno parlato, presentando ai ragazzi quello che i prossimi giorni vedranno, uno spaccato del nostro mondo. Vita reale.
E nessun problema c’è stato tantomeno a Brescia dove tutto è partito. Un diverso sentire, un diverso approccio all’arte, alla bellezza del teatro e del suo poter abbattere barriere. Baracchini ha fatto una operazione rivoluzionaria e al contempo provocatoria. Anche se i termini giusti dovrebbero essere contemporanea e realista.
La sua Violetta Valerie non è più solo la prostituta che si redime, simbolo di quell’ottocentesca vita in cui nei vicoli si nascondevano bordelli di ogni tipologia, con le ‘migliori’ destinate ai signori della città. Si va oltre l’opera diventata classica di Verdi in cui si racchiudono tanti momenti: felicità nell’incontro, piacere nei corpi e nelle menti, lotta contro le convenzioni, la condanna sociale, il dolore della separazione, e infine la morte.
Tutto questo, però, al regista non bastava. E lui lo spiega nella sua nota di regia: “Vorrei che smettessimo di accontentarci di un epilogo retorico e moralmente accomodante, in cui una “Maddalena” redenta ascende al cielo come una pudica vergine. Se Traviata è viva, oggi come allora, chi vi assiste deve provare le contraddizioni fra un pregiudizio che l’accompagna e un racconto che lo mette a nudo, davanti all’essere umano”.
L’originalità della regia è stata tale che Baracchini ha vinto un bando internazionale per artisti under 35 che aveva il sostegno del Ministero della Cultura. È piaciuto il suo sfidare il pregiudizio, proprio come fece la Signora delle Camelie di Dumas.
Una traviata che diventa deviata e alla fine transgender fotografa il presente? Per molti, ma non per tutti, è così. Chi ha detto no, comune di Fermo e comune di Ascoli Piceno, che hanno però confermato, forse per motivi contrattuali, la rappresentazione serale per tutti i cittadini, deve averci visto qualcosa di pruriginoso. Ma, non appena si accenderanno le luci capiranno che non c’è alcuna drag queen, che non ci sono tacchi a spillo e scene di nudo forzate. E alla fine rimarrà deluso, o forse comprenderà l’errore.
Questa idea di ovattare i giovani, che poi accendono la televisione e possono vedere di tutto e di più, è la vera parte retrograda della scelta di censurare un’opera premiata proprio per la sua capacità di parlare ai ragazzi, oltre che alle persone che spesso non riflettono sulla realtà che le circonda.
Non c’è esibizione voyeuristica, questo raccontano le critiche anche sui giornali dele città in cui Violetta è già passata con i suoi abiti moderni, quasi androgina senza in realtà volerlo essere. Quanto accaduto crea un precedente, toglie quell’aura di indipendenza alla Fondazione Rete Lirica, che deve sì rispondere ai soci, ovvero i comuni, ma che mai si era vista porre paletti così grandi.
Magari potranno non piacere la regia, le luci e la coreografia, ma censurare qualcosa sulla carta è pericoloso. Si inizia sempre con qualcosa di piccolo e non si sa mai dove si finisce, senza trascurare il fatto che quando si dice no si polarizza sempre qualcosa.
Per cui, se qualche studente fosse incuriosito dallo spettacolo originale, visto che al mattino gli sarà privato, provi a comprare un posto tra i grandi per l’11 febbraio e magari, alla fine, potrà dire la sua, liberamente, rompendo quel pregiudizio che il 29enne Baracchini era convinto di aver abbattuto mostrando le due facce della morale: quel prima e dopo, quel passaggio da uomo a donna che in fin dei conti non era poi così lontano dalla prostituta che diventa donna fedele che segnò la storia ‘scandalosa’ della Traviata.
RAFFAELE VITALI
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È andata in scena solo al Teatro della Fortuna di Fano la versione integrale de La traviata proposta in anteprima (domani alle 20,30 per il pubblico) agli studenti degli Istituti scolastici marchigiani. Un teatro gremito in ogni ordine di posto per una sorta di esclusiva regionale dato che, le programmate anteprime under 30 a Fermo e Ascoli sono state sostituite da una versione in forma di concerto, senza quindi il moderno allestimento pensato da Luca Baracchinidi, che così tanto successo ha già riscosso in Lombardia.
La scelta
La “forte” scelta di Baracchini è stata infatti quella di raccontare Violetta, nell’opera originale (tratta da una storia vera) una prostituta d’alto bordo, come un trans: scelta che si evidenzia sul palco con la presenza, in alcuni momenti, di un mimo, suo alter ego maschile. E se a fare il verso a Traviata ci pensò già Pretty Woman negli anni ’90, per il regista il pregiudizio moderno si sposta sulla scelta di genere, una tragedia dell’intimità che ha al centro una protagonista incapace, lei per prima, di accettare se stessa e la sua storia. Presenti a Fano quattro terze medie, gli studenti degli Istituti superiori accompagnati dai loro insegnanti, ma anche molti giovani che hanno approfittato dell’occasione. Già fuori dal teatro si percepisce l’attesa e l’interesse dei ragazzi, dai più grandi ai più piccoli. «Non è scontato che i ragazzi conoscano queste problematiche», afferma una insegnante di liceo «ben vengano quindi queste occasioni». Tra i “piccoli” è evidente che «le altre città hanno una mentalità troppo chiusa». Al termine del primo atto, per Nicolas di 16 anni lo spettacolo è «ipnotico e coinvolgente al punto che nella scena della festa viene quasi istintivo ballare con loro. Una versione interessante, senza nulla di male». Per Claudia, 16 anni, «è uno spettacolo innovativo e molto bello. La voce di Violetta (Karen Gardeazabal) è meravigliosa e mette i brividi. Nulla di scandaloso per il resto».
«Innovativo e utile»
Per Sara, 18 anni, venuta apposta da Pesaro, «la tematica transgender rende questo allestimento innovativo e molto adatto ad un pubblico di ragazzi, quelli che di solito l’Opera tende a distanziare. Il mimo rende più esplicito il concetto e quasi scardina la nudità sul palco, cosa che forse i ragazzi non sono abituati a vedere soprattutto all’Opera, considerata qualcosa di vecchio, antico, fuori moda e a tratti conservatore. Avere introdotto una scena tipica da bar, dove far baldoria e nottata, si lega moltissimo alle tematiche giovanili e consente di approcciarsi anche a delle riflessioni da quel punto di vista. Credo che un’opera così possa annullare quella distanza che di solito tiene lontani i giovani che già vanno poco anche a teatro». Alice di 19 anni è venuta con un’amica, senza alcuna preparazione, ma è colpita dall’allestimento così moderno: «è bellissima, ma non è poi così evidente la tematica transgender, almeno fino al secondo atto, ci piace questa scena così attuale, gli abiti moderni, è intrigante». Dunque, l’idea di Baracchini di attualizzare la scandalosa vicenda dell’Ottocento creando questa nuova identità per Violetta non è né più scandalosa né così evidente, almeno fino alla toccante scena dell’«Amami Alfredo» nel secondo atto. Quasi 10 minuti di applausi accolgono gli artisti: pubblico entusiasta e coinvolto fino all’ultima nota. Un successo non scontato, ma carico di approvazione e consenso dei tantissimi under 30.
ELISABETTA MARSIGLI
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Sold out di under 30 al teatro della Fortuna per la rivisitazione choc dell’opera di Verdi
“Molto rumore per nulla" direbbe Shakespeare. Un nuovo sold out per la Violetta trans, dopo il pienone della prova generale aperta al pubblico di martedì sera. Ieri pomeriggio tanti applausi ed entusiasmo giovanile dopo il religioso silenzio nell’ascolto, per l’anteprima fanese di La Traviata prodotta dalla Rete Lirica delle Marche con OperaLombardia, che dopo il tour lombardo si appresta a debuttare al Teatro della Fortuna di Fano (ore 20.30) per poi approdare a Fermo ed Ascoli dove le anteprime per i giovani saranno in forma di concerto.
Preceduta dalla fama di non essere adatta ad un pubblico under 30 (per la protagonista transessuale) a Fermo ed Ascoli l’opera è stata infatti censurata, mentre a Fano l’attualizzazione operata non ha scandalizzato il pubblico, tanto più che chiunque sul proprio cellulare ha costantemente a portata di mano tutto quello che di "scandaloso" si è visto in scena. La scelta del 29enne Luca Baracchini di raccontare la protagonista anche come una trans (non solo come la prostituta d’alto bordo narrata da Dumas nella Signora delle Camelie, a cui si ispira il libretto di Francesco Maria Piave), si è infatti concretizzata in alcuni momenti cruciali della narrazione, con la presenza sul palco di un mimo, alter ego di Violetta, il suo sé del passato, tormentato da un corpo maschile che non sente suo. Così nella potente storia d’amore e redenzione dell’Opera di Giuseppe Verdi, che è anche un duro atto di accusa nei confronti di una società ipocrita e fintamente perbenista nei confronti delle donne, l’idea di Baracchini di attualizzare la scandalosa vicenda creando questa nuova identità per Violetta, alla fine non appare neppure tanto stravagante.
Il momento clou della regia (che si muove in una scena lineare, pulita, vivacizzata da luci led che mutano di colore) lo si tocca quando sulle note struggenti di ‘Amami Alfredo’, il mimo scrive su un grande specchio l’eloquente invito: ‘Amati’, rilanciando il tema universale dell’accettazione di sé che, diffuso da una persona transgender, assume un senso ancora più ficcante.
Per il resto, la regia non presenta altri segni particolari: si scosta poco dal solco della tradizione perché quanto di più scandaloso è suggerito più che mostrato. Anche quando, nella scena della festa in casa di Flora, al posto del balletto di zingarelle e mattadori, compaiono una Drag Queen e due mistress con i frustini per una scena in salsa bondage.
TIZIANA PETRELLI
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Grande successo a Fano nell’anteprima per gli studenti de “La Traviata” con Violetta transgender che non ha creato alcun disorientamento tra i ragazzi come invece temevano le amministrazioni medievali di Ascoli e Fermo. “Censura avvilente” commenta il regista Luca Baracchini
La prima e più importante notizia è che gli studenti fanesi non sono stati “traviati” dalla Violetta transgender de “La Traviata” di Luca Baracchini. Giovedì sera, in un teatro Fortuna di Fano pieno di ragazzi, è andata in scena l’anteprima per gli studenti che, stando almeno alle cronache di tutti i quotidiani locali, non ha creato alcun disorientamento come invece temevano le amministrazioni medievali di Ascoli e Fermo. Anzi, dalle reazioni della platea e dai commenti raccolti all’uscita dal teatro sembrerebbe proprio che i ragazzi hanno apprezzato notevolmente, come dimostrano gli oltre 10 minuti di applausi scroscianti. In realtà nulla di strano, tutto come ampiamente previsto, solo pensare che i ragazzi di oggi (che su queste tematiche sono, fortunatamente, avanti “anni luce” rispetto alla nostra generazione) potessero in qualche modo essere turbati dalla Violetta transgender dimostra quanto i nostri amministratori sono disperatamente lontani non dal capire, ma anche semplicemente da immaginare il mondo dei giovani di oggi.
La seconda notizia, decisamente meno consolante (perché mai come in questo caso “mal comune” non fa certo “mezzo gaudio”) è che a Fermo gli amministratori locali probabilmente sono ancora più arretrati e medievali di quelli ascolani. “Voglio capire come un’opera vietata ai minori sia stata proposta alle scuole” avrebbe affermato, secondo quanto riporta un quotidiano locale, il sindaco di Fermo Calcinaro. Quanto meno sindaco e assessori ascolani hanno avuto la decenza (e c’è solo da sperare che continuino ad averla) di non commentare, di rimanere in silenzio. Magra, anzi magrissima, consolazione, è già comunque sufficientemente deprimente quello che è avvenuto, censurare la cultura è qualcosa che va oltre il medioevo.
Lo avevamo già sottolineato nel precedente articolo (“La Traviata censurata, quando la toppa è peggio del buco”) ed è quanto mai opportuno ribadirlo, spiace terribilmente dirlo ma questa brutta pagina è la conferma di quanto sia stato legittimo non scegliere Ascoli come Capitale Italiana della Cultura 2024, sarebbe stata una tremenda beffa se la città insignita di un simile importante titolo si fosse resa protagonista di un inaccettabile episodio di censura. Sappiamo bene di attirarci così gli strali di chi ha i paraocchi, ma è fondamentale ribadire che la cultura è inclusione, apertura mentale, non può e non potrà mai essere censura. La terza notizia è, invece, quella più surreale e sconcertante che, se mai ce ne fosse stato bisogno, contribuisce ad accentuare dubbi e perplessità, non solo sul fatto in se, ma anche su tutta la gestione degli eventi.
Dopo il trambusto che è seguito alla notizia della censura da parte di Ascoli e Fermo, è intervenuto su un quotidiano locale anche il presidente della Fondazione lirica delle Marche, l’avvocato ascolano Francesco Ciabattoni, a spiegare quanto è accaduto. “Dell’allestimento con queste caratteristiche – avrebbe dichiarato Ciabattoni a quel quotidiano – anche noi della Rete lirica lo abbiamo saputo tardi. Quando poi abbiamo letto le recensioni delle rappresentazioni che erano già state fatte al nord Italia, dove si evinceva una certa divisione del pubblico, ci siamo sentiti con le amministrazioni comunali di riferimento che successivamente hanno preso, ciascuna, le proprie decisioni in merito. Il Comune di Ascoli ha ritenuto di fare la scelta della sola versione concertistica per le scuole e l’abbiamo rispettata. Noi, come consiglio direttivo, abbiamo un’altra funzione. C’è poi un direttore che abbiamo demandato per fare le scelte tecniche e di qualità dei titoli”.
Come direbbe Antonio Lubrano, la domanda sorge spontanea. Ma nella Rete lirica delle Marche ci sarà un direttore/direttrice artistico che conosce le opere che propone al pubblico marchigiano e che è un minimo informato in proposito? Perché il regista Luca Baracchini ha vinto il bando per la selezione del progetto di regia dell’opera ad aprile 2022, quindi c’era tutto il tempo per conoscere il suo allestimento. Senza dimenticare che già a novembre sui quotidiani e sui siti internet lombardi si parlava di questo “trasgressivo” allestimento de “La Traviata” in scena nei teatri lombardi ad inizio dicembre. In ogni caso la discussione su come e quando si è scoperto il presunto “malefatto” è del tutto fuori luogo e oltremodo deprimente, non conta il come e il quando, conta che Ascoli e Fermo hanno messo in atto un’inaccettabile forma di censura.
“Censurare a priori uno spettacolo significa anestetizzare, se non addirittura negare e contraddire il ruolo dell’arte e della scuola. Censurare significa nascondere, temere, creare un problema là dove la libera comprensione e la riflessione lo sciolgono. Imporre La Traviata in forma di concerto per i giovani e le scuole è offendere Verdi, gli artisti, l’intelligenza e la dignità del pubblico” scrive Roberta Pedrotti, giornalista e stimatissima e qualificatissima critico musicale. Il suo articolo su questa vicenda (“Niente sesso, siamo marchigiani”) sarebbe da far leggere a quanti hanno deciso di porre questa vergognosa censura (poi naturalmente bisognerebbe sperare che lo capiscano…). E mentre il regista Luca Baracchini si limita ad un “censura avvilente”, chi non risparmia feroci critiche è Francesco Ameli come consigliere comunale ma anche come chi per anni ha collaborato con molti enti lirici ed è salito sul palco come corista.
“Ancora una volta Ascoli ha scelto di farsi riconoscere per il suo bigottismo in termini culturali – afferma – ma non è sola, è ben accompagnata da Fermo, un’altra città che sta mettendo a pieno i valori oscurantistici della destra”. Paradossale se si pensa che quest’opera ha vinto un concorso nel 2021 proprio per under 35! Senza capire minimamente l’essenza stessa dell’opera e della regia, ancora una volta ci siamo fatti riconoscere. Ed ancora c’è qualcuno che si chiede perché Ascoli non è riuscita ad assolvere al ruolo di capitale della cultura mentre Pesaro si. Sapete perché? Perché a Fano (e Brescia prima, anche lei capitale della cultura quest’anno!) la Traviata è stata messa in scena normalmente per gli under 30 e tutti i ragazzi ne sono entusiasti!
Ma l’ipocrisia è evidente quando si censura la cultura e non si attivano percorsi a tutela degli adolescenti che scoprono la sessualità in età spesso pre-adolescenziale, o navigano senza filtri h24 sulla rete, o gestiscono rapporti interpersonali in maniera spesso sbagliata senza la supervisione dei genitori. Insomma, mi sarei aspettato dall’amministrazione un dibattito stimolante, anche critico, ma purtroppo si è scelta una bigotta censura”. D’altra parte, però, è molto più semplice censurare quando non si riesce a capire…
FRANCESCO DI SILVESTRE
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E’ consuetudine ormai radicata, e spesso anche stigmatizzata, che alcuni titoli del grande repertorio vengano identificati non più con gli autori ma con i responsabili di allestimenti celebrati e riproposti nel corso del tempo (è il caso della Bohème di Zeffirelli o della Traviata di Visconti). Accade anche, seppur con meno frequenza, che l’identificazione avvenga con degli elementi scenici caratterizzanti dell’allestimento o delle particolari scelte registiche: la Traviata “degli specchi”, il Trovatore “dei fuochi”, il Lohengrin “dei topi” e via discorrendo. Premessa necessaria, quella di cui sopra, per inquadrare la vicenda dell’allestimento di Traviata che qui si recensisce, frutto di una coproduzione tra Rete Lirica delle Marche e OperaLombardia, che arriva in terra marchigiana dopo le recite nei teatri del circuito lombardo portandosi la nomea di “Traviata transgender” e un’appendice che non esitiamo a definire surreale.
Accade infatti che per le repliche previste a Fermo e Ascoli le recite riservate agli under 30 verranno proposte in forma di concerto per scelta delle amministrazioni comunali dopo consultazioni con i vertici amministrativi della Rete Lirica, a causa del taglio dato all’allestimento che vede la protagonista come donna transgender. Pur riconoscendo che al consiglio direttivo non spettano decisioni in merito a scelte artistiche sui titoli, il presidente del suddetto consiglio, Francesco Ciabattoni, ha dichiarato al Resto del Carlino: “Dell’allestimento con queste caratteristiche anche noi della Rete lirica lo abbiamo saputo tardi. Quando poi abbiamo letto le recensioni delle rappresentazioni che erano già state fatte al nord Italia dove si evinceva una certa divisione del pubblico, ci siamo sentiti con le amministrazioni comunali di riferimento che successivamente hanno preso ciascuna le proprie decisioni in merito” e ancora “Il problema è stato solo di conoscenza del taglio che è stato dato all’opera. Taglio che non è solo artistico, ma in questo caso riguarda anche un po' i contenuti. Quindi di fronte a una scelta, diciamo così, abbastanza delicata, sarebbe stato opportuno dare un’informazione precedentemente all’acquisto dei biglietti in modo tale che ognuno possa essere consapevole del tipo di spettacolo che va a vedere”.
Già sulla base di queste affermazioni si può rimanere abbastanza basiti per varie ragioni: anzitutto avere la pretesa di informare il pubblico su cosa va a vedere (nello specifico la vicenda di una puttana, come lo stesso autore la ebbe a definire, che viene obbligata a rinunciare a una relazione con un giovane rampollo della buona borghesia parigina dal bigottissimo padre di lui, tanto per essere chiari) sostenendo che di come si metta in scena questa liliale vicenda si debba essere avvertiti prima, e se non piace preventivamente meglio soprassedere e ascoltare solo la musica. Ma aggiungiamo anche che questo allestimento è nato da un concorso di idee che il team registico ha vinto parecchi mesi addietro, per cui era noto già da molto tempo quale sarebbe stata l’idea portante. Allestimento per il quale si è poi deciso di oscurare la parte visiva alle “anteprime giovani” senza averne visto uno straccio di prova ma solo sulla base di recensioni delle recite già andate in scena (ah, questi critici…). Per cui, riassumendo: due amministrazioni comunali su tre della rete Lirica delle Marche decidono di far rappresentare unicamente in forma di concerto le recite de La traviata destinate agli under 30 (under 30, non under 15), per timore che un allestimento in cui Violetta è rappresentata come una donna transgender possa essere disturbante, e il tutto senza aver assistito a una singola recita ma solo sulla base di recensioni. Al lettore decidere cosa pensare di tutto ciò in termini di eventuale senso del ridicolo.
Anche perché su come l’idea portante sia stata effettivamente tradotta sul palcoscenico ci sentiamo di condividere quanto scritto da Simone Manfredini in occasione della recita al Ponchielli di Cremona dello scorso 2 dicembre (qui la recensione). Identificare lo stigma sociale per cui Germont impone a Violetta di lasciare il figlio non sulla sua professione di prostituta d’alto bordo ma di donna transgender, è idea assolutamente valida e affascinante: ma la modalità in cui è stata tradotta in questo allestimento si è limitata a pochi tocchi (la scena iniziale durante il preludio, la presenza del “doppio” maschile di Violetta nei momenti topici, la scritta AMATI sullo specchio durante Amami Alfredo) nel quadro di una rappresentazione certamente molto curata e godibile ma tutto sommato di stampo tradizionale, seppure trasportata ai giorni nostri negli arredi e nei costumi. Pure il momento considerato più “dirompente” come la supposta scena sadomaso durante la festa del secondo atto, si è rivelata alla fine nulla più che la presenza di due comparse femminili in lattex e frustino che si aggiravano tra gli invitati, un (bravissimo) artista del coro vestito da drag queen e l’arrivo di un astante che indossava una maschera bondage a forma di testa di toro che si rivelerà poi essere Alfredo in evidente stato di alterazione da stupefacenti. Davvero di che sorridere, pensando a quello che si vede oggi su una qualunque tv generalista, e comunque nemmeno lontanamente vicino a essere considerato disturbante per un pubblico di under 30.
Passando al versante musicale, come nelle recite lombarde anche in questa occasione la partitura è stata proposta nella sua piena integralità, circostanza sulla quale è bene spendere di nuovo alcune parole come già fatto in passato per analoghe situazioni. Voler eseguire quanto l’autore prevede troppo spesso viene considerato esercizio di mero stile rispetto a una prassi esecutiva del passato che ha coinvolto anche nomi storici della direzione d’orchestra, con motivazioni fra le più disparate e bislacche: un noto direttore incline ai tagli, ad esempio, sostenne che in Traviata le seconde strofe si possono tranquillamente omettere in quanto ai tempi di Verdi in teatro si faceva di tutto (mangiare, giocare, amoreggiare), quindi erano necessarie per dare al pubblico l’occasione di sentire bene la melodia una seconda volta, dopo il primo distratto ascolto, e che ai tempi d’oggi questa esigenza non c’è più. Se si può però discutere sull’opportunità delle riprese delle cabalette sic et simpliciter, il discorso non regge più per le due grandi scene di Violetta. Infatti eseguire entrambe le strofe di “Ah, fors’ è lui” e “Addio del passato” non è scelta di ‘furore filologico’, ma una precisa esigenza per rendere appieno il percorso d’animo della protagonista: dalla condizione di escort di lusso, come va di moda dire al giorno d’oggi, nel “Solo amistade io v’offro, amar non so, né offro”, ai primi segnali di un fiorire del sentimento di “E nuova febbre accese destandomi all’amor”, alla presa completa di coscienza di “Sentia che amore è palpito dell’universo intero”. Analogamente, la vera consapevolezza della morte, dopo la constatazione che “Le rose del volto già sono pallenti” si ha a “Le gioie e i dolori, tra poco avran fine”. Tutto ciò sulla base delle minuziose indicazioni di Verdi, ci mancherebbe. Non solo: ascoltare passi come “Parigi o cara” e “Gran Dio morir si giovane” nella loro completezza conferisce alla scrittura verdiana uno spessore che si perde completamente con i tagli di tradizione, i quali derubricano le melodie a un sentimentalismo certo di livello superiore, perché sempre di Verdi stiamo parlando, ma molto più generico.
Ovviamente perché tutto ciò sia percepibile occorre un direttore capace di dare senso teatrale a queste scelte, non limitandosi a far suonare tutte le note scritte. La direzione di Enrico Lombardi è parsa ben orientata in questo senso, soprattutto per la speditezza di narrazione che ha bandito molti degli effetti ai quali siamo abituati in termini di tempi o agogiche, ma con dei piani sonori in varie occasioni davvero interessanti all’ascolto. In questo senso ha colpito particolarmente "Amami Alfredo", che privato dei suoi tradizionali (e non scritti) effetti di crescendo e allargando ha rivelato, soprattutto per l’insolito effetto delle percussioni, un senso di tragedia imminente davvero particolare. Al lato opposto, passi come "Un dì, felice, eterea" hanno invece risentito di una sbrigatività un po' troppo accentuata, pur nella precisione e ricchezza timbrica della sempre valida Sinfonica Rossini.
Al debutto nel ruolo Karen Gardeazabal ha risposto in modo assolutamente convincente alle indicazioni del direttore, con una precisione musicale che è andata di pari passo con la gestione di uno strumento davvero ragguardevole per armonici, compattezza nei registri e facilità nella pirotecnia vocale del primo atto. La sua Violetta è tormentata e irrisolta fin dalle prime battute, in linea anche in questo caso con l’impostazione registica, in virtù di un’emissione ricca di chiaroscuri che trova poi il suo culmine nello strazio finale di "Prendi quest' è l’immagine". Ottima anche la resa scenica, soprattutto nella intensa mimica del volto. Valerio Borgioni colpisce anzitutto per la bellezza del timbro e la sicurezza tecnica, che gli permettono fra l’altro di emettere un do al temine della cabaletta, ripresa e variata con molto gusto, che ha letteralmente riempito la sala. Specularmente alla prova della collega, la caratterizzazione del suo personaggio sembra però averlo condizionato, ma in negativo, sulla resa di un fraseggio spesso inerte e poco incisivo. Alfredo è infatti visto come un debole assoluto, che si rannicchia su sé stesso in più di un’occasione e particolarmente in presenza del padre, dal quale viene anche platealmente schiaffeggiato dopo la scena della borsa quando è già a terra perché malmenato dal body guard del locale per l’offesa recata a Violetta.
Inizialmente non previsto per questa recita dopo quelle lombarde ma accorso all’ultimo in sostituzione di un collega malato, Vincenzo Nizzardo ha interpretato un Germont cinico e finanche crudele, caricando l’accento con evidente parossismo. La cosa funziona bene almeno fino all’aria, dove sarebbe stato preferibile un maggiore legato, ma provoca anche evidenti sforzi nella spinta all’acuto e una lieve indecisione sulla variazione alla fine della cabaletta. Nel folto numero delle parti di fianco si è distinta per notevolissima presenza scenica la Flora di Reut Ventorero, e molto interessanti sono apparse le prove vocali di Giacomo Leone come Gastone, Lorenzo Mazzucchelli come Marchese D’Obigny, Alfonso Michele Ciulla come Douphol e Nicola Ciancio come Grenvil. Come al solito ben preparato e affiatato sotto la sapiente guida di Mirca Rosciani il Coro del Teatro della Fortuna.
Caloroso il successo finale per tutti i protagonisti, team registico compreso, da parte di un pubblico che ha riempito tutti i settori del teatro.
La recensione si riferisce alla recita del 4 febbraio 2023.
DOMENICO CICCONE
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Ma guarda che ti va a capitare. Dopo aver riso per anni del bigottismo censorio che, ai tempi, si abbatté su traviata dando origine, almeno nei teatri dello Stato Pontificio, alla banalotta riduzione intitolata Violetta (quella all’origine della celebre invettiva verdiana “La censura ha guastato il senso del dramma. Ha fatto la Traviata pura e innocente. Tante grazie! Così ha guastato tutte le posizioni, tutti i caratteri. Una puttana deve essere sempre puttana. Se nella notte splendesse il sole, non vi sarebbe più notte”) ora, in teatri situati in quegli stessi territori, si censura non l’opera, ma uno spettacolo considerato scandaloso e rischioso per i “giovani”. Poco importa che si sfiori il comico (si spera involontario) censurando in recite definite under 30 uno spettacolo vincitore di un concorso per registi under 35, poco importa che non si sia sicuri che qualcuno abbia effettivamente visto l’oggetto di questo scandalo prima di parlarne (nessuno dei politici locali sdegnati, difatti, afferma di essersi recato fino in Lombardia per assistere a una delle recite invernali della regia di Baracchini): l’importante è ribadire che questo non era quello che voleva Verdi. Ma cosa c’era di scandaloso in questa regia di Baracchini? Nulla, in realtà: al limite solo la scelta di rendere la protagonista non solo una prostituta ma anche una donna transgender al termine della sua transizione MtF. Tutto qua, ma sufficiente a convincere le amministrazioni di due dei tre teatri della Rete Lirica delle Marche (Fermo e Ascoli) a organizzare una recita in forma di concerto per le tradizioni anteprime under30 della Rete Lirica Marchigiana destinate a giovani e a studenti invece di proporre lo spettacolo in programma. Non così a Fano in cui, invece, l’anteprima giovani si è svolta regolarmente (e con grande successo) e stupisce notare il lato ironico di una faccenda che, nel tentativo di censurare un capolavoro per tutelarne l’integrità, dimostri invece quanto quel capolavoro abbia ancora da dire ai nostri tempi, “meritando” la stessa censura di cui fu vittima nel XIX secolo. Forte sarebbe, ora, la tentazione di sovrastimare uno spettacolo, in realtà, di sicuro riuscito ma non così dissacrante per apparire invece, al contrario, molto discreto e delicato nel raccontare una vicenda di mancata accettazione di sé e di insicurezze, non privo peraltro di tocchi molto azzeccati (il mimo alter ego di Violetta, rappresentazione del suo sé maschile, che scrive “Amati” sullo specchio al momento dell’addio della donna ad Alfredo, un invito all’accettazione di sé ma anche un possibile avvertimento ad Alfredo a non abbruttirsi per la delusione amorosa, come invece avverrà a casa di Flora). Un poco irrisolto mi è invece parso il finale, in cui l’ultimo confronto tra i due amanti sembra quasi un sogno della morente, per overdose, Violetta, ma in una realizzazione che sembra (volutamente?) ambigua sulle effettive cause di morte della donna.
L’unico lato blandamente e superficialmente positivo legato a questa polemica priva di fondamenta può essere ravvisato nella pruderie del pubblico che, magari aspettandosi chissà cosa, ha esaurito molto rapidamente tutte le recite disponibili dell’allestimento: peccato che, al di là di una maschera leather e di una blanda scena di spanking a casa di Flora (che non scandalizzerebbe nessuno) non ci sia proprio nulla di così scandaloso o volgare nella regia. Molto interessante la parte musicale: la direzione di Enrico Lombardi (di cui ha già parlato diffusamente Francesco Lora in MUSICAn. 343) è stata molto rigorosa, scabra e asciutta, di sicuro lontanissima da certa tradizione ma in grado di leggere l’opera con secca e nitida drammaticità, peraltro permettendosi il lusso di una lettura integrale con l’inserimento di parche e raffinate variazioni nelle riprese di strofe e cabalette: di sicuro non una direzione in grado di piacere a tutti nel suo allontanarsi programmatico dalla rassicurante prassi esecutiva, ma di certo una direzione molto pensata e coerente, non banale. Note liete per la protagonista, la messicana Karen Gardeazabal, che non vanta timbro squisito e accusa qualche stridore nel registro acuto, ma canta con partecipazione ammirevole, fraseggia con grande gusto, sta bene in scena e, in sintesi, firma una Violetta del tutto convincente, peraltro salutata dal pubblico di Fano con caldi e meritati applausi. Bene anche l’Alfredo di Valerio Borgioni, giustamente impacciato e incerto all’inizio ma in grado di toccare poi anche accenti di forte e intensa drammaticità nel II Atto e nel Finale, mentre ha convinto meno il Germont di Vincenzo Nizzardo, accorso all’ultimo in sostituzione di un collega indisposto (Nizzardo era comunque titolare di alcune delle recite dello stesso spettacolo nel circuito di OperaLombardia lo scorso anno), fin troppo ruvido nell’espressione e nell’emissione. Comprimari abbastanza ben scelti e un pubblico, al termine, folto e plaudente, alla faccia delle censure.
GABRIELE CESARETTI
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